STRALCIO DA UN LUNGO SAGGIO IN COSTRUZIONE, di GLG

gianfranco

(parziale esplicazione del testo “Navigazione a vista”)

3. Cosa comporta la distinzione tra lavoro e forza lavoro? Seguiamo il ragionamento. Dobbiamo però fissare intanto di quale forma di società trattiamo. La distinzione fondamentale è tra società in cui chi presta lavoro ha vincoli di dipendenza servile (o è addirittura schiavo, “cosa parlante”) e società, una sola finora, in cui si afferma a livello generale (e “formale”) la piena libertà degli individui. Intanto sia chiaro che dire formale non significa minimamente svalutare la libertà individuale; tutto il contrario, si tratta di affermazione forte e sostanziata dal cosiddetto diritto e da tutta la complessa serie di apparati cui questo ha dato origine per stabilizzarsi, essere difeso, reprimere ogni tentativo di aggirarlo o altro.

Nelle società servili, chi eroga lavoro, chi pone in atto la propria forza lavoro, è obbligato a farlo secondo indirizzi stabiliti altrove, al di fuori della sfera produttiva (“economica” in senso lato). Non c’interessa adesso parlare di queste società. Andiamo direttamente a quelle in cui è caduto progressivamente ogni vincolo servile; in cui già la prima manifattura (in quanto “bottega artigiana allargata” come la definisce lo stesso Marx) vede la fine del rapporto tra mastro artigiano e garzone (che, con il “capolavoro”, diveniva a sua volta mastro) e l’instaurarsi del rapporto tra chi ha “capitali” (e proprietà dei mezzi produttivi impiegati nelle manifatture) e chi è rimasto fuori della bottega e deve vendere per vivere la sua capacità di lavoro (la forza lavoro) che, cadendo i vincoli servili, diviene merce, oggetto di compravendita. Anche se all’inizio tale vendita è ancora impastoiata in una serie di intralci legati al passato, Marx suppone fin da subito la “libertà” degli scambisti, quindi la vendita di questa particolare merce mediante libera contrattazione tra suo acquirente (proprietario dei mezzi produttivi, capitalista) e suo venditore, il lavoratore libero da vincoli, libero di contrattare l’unica merce che possiede e che è insita nel suo corpo.

Il vero capitalismo si ha con la sottomissione reale del lavoro sotto (sussunzione reale nel) capitale, inteso quale proprietà dei mezzi produttivi. E la sottomissione reale, che implica spoliazione del “fu” artigiano di ogni suo sapere relativo a quel dato processo lavorativo, si realizza effettivamente con la rivoluzione industriale, che trova poi fasi successive, non ancora oggi terminate. Si crea la gran massa del lavoro detto salariato. E qui ci si deve soffermare.

Nel 1848, quando esce il fondamentale testo (in effetti un pamphlet), “Il Manifesto del partito comunista” (firmato anche da Engels che non si pensa vi abbia apportato alcun contributo), è in definitiva già avvenuta la decantazione del cosiddetto “Terzo Stato” (gli altri due essendo Nobiltà e Clero).

Secondo l’abitudine della divisione dicotomica e contraddittoria, che fu poi sempre quella dei marxisti (in ciò seguendo più che altro, credo, l’hegelismo), le due classi individuate in questo processo di differenziazione del Terzo Stato furono borghesia e proletariato. La prima fu detta anche classe capitalistica, in quanto proprietaria dei mezzi di produzione; il secondo fu la classe operaia, dizione usata sempre indifferentemente, senza mai alcuna effettiva distinzione terminologica, per indicare appunto il proletariato. E’ tuttavia sintomatico che nelle affermazioni forti circa il ruolo di tale (presunta) classe, si utilizzò sempre la denominazione di proletariato. Prendiamo, ad es., “proletari di tutto il mondo unitevi”, “internazionalismo proletario”, “i proletari non hanno Patria”, “non hanno da perdere altro che le loro catene”, “la rivoluzione proletaria mondiale”, ecc. E quando vi fu la “Rivoluzione d’Ottobre” la si pensò, in un primo momento, quale detonatore, innesco, di tale rivoluzione mondiale dei “senza Patria”, cioè privi di vera nazionalità o comunque di appartenenza ad una determinata area territoriale, interessata da una sua storia particolare; l’appartenenza di classe (alla classe detta “sfruttata”) avrebbe annullato di fatto ogni differenziazione di cultura, di lingua, di tradizione, ecc.

Il termine proletario assegna una connotazione miserabilista a chi è così definito. Il “non perdere altro che le proprie catene” – che da ormai quasi un secolo dovrebbe far ridere chiunque pensi seriamente ad un qualsiasi gruppo sociale in paesi a pieno sviluppo capitalistico – è sintomatico di che cosa si intendeva quando si parlava della “classe operaia” quale soggetto cardine della rivoluzione …… appunto proletaria mondiale. Purtroppo, i termini usati per definire una data situazione o evento, ecc. indirizzano spesso il pensiero. Si è sempre parlato dello Stato nato da quella rivoluzione – creduta l’inizio della transizione (socialismo) dal capitalismo (abbattuto) al comunismo (punto finale della trasformazione) – come di uno Stato di “dittatura del proletariato”. Il termine proletario è stato la condanna di un pensiero intorno al processo storico iniziato, se vogliamo, nel 1848 ma con tappe salienti nel 1864 (I Internazionale operaia), 1889 (II Internazionale), fine dell’internazionalismo (fasullo) con la prima guerra mondiale; e poi rottura (mai voluta ammettere) di tale processo nell’ottobre 1917 (da cui nasce la III Internazionale comunista), che invece sposta il baricentro dei processi di “rivoluzione”, con successiva creduta “costruzione del socialismo”, verso i paesi non capitalisticamente sviluppati e ancora abitati, quale stragrande maggioranza della popolazione, dai contadini.

Questi ultimi diventano la massa di manovra delle rivoluzioni, cui aderiscono per avere il loro appezzamento di terra (in paesi a situazione semifeudale o in ex colonie dei paesi industriali capitalistici) e non certamente interessati alla transizione socialistica al comunismo. A tale transizione restano attaccati gruppi di dirigenti “borghesi” che andarono a costituire i vertici delle sedicenti “avanguardie” del proletariato o classe operaia (ormai divenuti sinonimi), cioè i partiti comunisti. Questi ebbero un “futuro” nei paesi a prevalenza contadina, mentre nei paesi capitalistici a forte industrializzazione furono minoritari (spesso oggetto di persecuzione e adesione popolare alla stessa). Di fatto, solo in Italia e, per un certo periodo di tempo, in Francia furono maggioritari (dopo la seconda guerra mondiale), ma quando avevano già tralignato iniziando, come minimo, un processo di sostanziale socialdemocratizzazione (e anche “di più”).

4. Differente sarebbe forse stata la situazione se, fin dall’inizio, non si fosse definito un certo gruppo sociale come proletario e nemmeno, possibilmente, operaio; più semplicemente, invece, lavoro salariato. Salario è stato denominato il prezzo della compravendita della merce forza lavoro, che i contadini espulsi dalle campagne e gli artigiani privati della loro condizione di lavoranti nelle botteghe e ormai divenuti operai manifatturieri, poi ulteriormente semplici lavoranti senza mestiere a causa della rivoluzione industriale, avevano come unica loro “proprietà”. Dire lavoro salariato significa afferrare immediatamente che a vendere detta merce non sono soltanto gli operai (lavoratori di fabbrica, le cosiddette tute blu). Marx parlava di proletariato e classe operaia, ma definì comunque quello che per lui era il vero “soggetto” della trasformazione socialistica (transizione, ecc. ecc.): “dall’ingegnere all’ultimo manovale”, il lavoratore collettivo cooperativo, il complesso di coloro che, ad un certo punto (della centralizzazione del capitale), diventano lavoratori salariati.

Faccio notare che comunque anche Marx faceva riferimento ai lavoratori della sfera produttiva, dei processi lavorativi in cui veniva trasformata materia prima in prodotto finito; non a caso, egli scriveva di “ingegnere e manovale”, non di lavoratore direttivo e di quello esecutivo, che insieme sono il lavoro salariato nelle diverse sfere sociali (anche negli apparati politici e ideologico-culturali). Tuttavia, l’errore di Marx fu abbastanza evidente in pratica fin da subito, poiché ingegnere (e dirigente, più in generale) e manovale (impegnato nei ruoli esecutivi, più in generale) non avrebbero mai costituito un lavoratore associato collettivo. Kautsky lo intuì e ridusse la classe operaia ai soli lavoratori esecutivi di fabbrica (industriale) e, in definitiva, ai proletari, ai “diseredati” e “sfruttati”, ai “dannati della società”; insomma, ai paria della sfera produttiva. Lenin rincarò la dose definendo “specialisti borghesi” i salariati direttivi. Indubbiamente, tale modificazione fu decisiva per lanciare il movimento operaio nell’agone politico per come poi è sempre stato; ma Marx era stato “allontanato” e il marxismo da scienza – fallibile e quindi rivedibile anche del tutto radicalmente! – andava trasformandosi in ideologia (delle “masse oppresse”). “Il Capitale” divenne la “Bibbia” della classe operaia (o proletariato); il marxismo si trasformò in una specie di (sotto)religione di ferventi credenti (cioè creduloni). Si entrava nel ‘900 ed un secolo ci è voluto per capire l’errore e il fallimento che avrebbe comportato.

Se si fosse parlato subito di lavoro salariato – cioè di complesso dei lavoratori, sciolti da vincoli servili, che vendevano liberamente nel mercato la loro forza lavoro – si sarebbe compresa l’inessenzialità di detta presunta “classe” (disomogenea al suo interno) ai fini della rivoluzione che avrebbe dovuto condurre alla formazione sociale di transizione (socialismo) dal capitalismo al comunismo. Si sarebbe capito che l’accusa lanciata alla sedicente classe operaia inglese di far parte di una “aristocrazia operaia”, di essersi ammorbidita nel semplice tradunionismo sindacale, ecc., rilevava invece semplicemente la caratteristica di un ormai numeroso raggruppamento sociale facente parte della riproduzione dei rapporti capitalistici – rapporti tra proprietario dei mezzi produttivi in quanto acquirente della merce forza lavoro e venditore della stessa quale sua unica proprietà mercantile – e per ciò stesso alieno da ogni forma di sconvolgimento che mettesse in discussione tale compravendita, nella quale può spesso risultare più forte il venditore della merce in questione con aumento del suo prezzo (salario) e delle condizioni di vita dei suoi venditori.

La fase di presunta rivoluzionarietà della classe in questione – continuamente indicata anche come proletariato a garanzia della sua condizione di inferiorità e di pretesa ribellione ad essa, di rivendicazione di una maggiore dignità umana, in realtà ormai conseguita per l’essenziale dai lavoratori salariati – è quella del passaggio dalla condizione contadina a quella di salariati con trasformazione della campagna e della sua cultura, con i tumultuosi processi di inurbamento, sempre disordinato e con forti disagi rispetto alla più semplice vita agreste. Una volta terminata tale fase – attraversata dai vari paesi di capitalismo detto avanzato in tempi assai diversi – il lavoro salariato ha mostrato d’essere una parte costitutiva, certo essenziale, del sistema capitalistico, i cui rapporti si sono riprodotti anche grazie all’attività specifica di tale raggruppamento sociale, di cui la sedicente classe operaia (in particolare i lavoratori industriali delle fabbriche) si è rivelata nulla più che un comparto speciale; con caratteristiche nient’affatto rivoluzionarie, anzi tendenti, quando possibile, a rallentare l’innovazione di processo specifica dell’attività imprenditoriale, attività di competizione (concorrenza) tra più soggetti (ormai non più individuali) svolgenti tale funzione.

Coloro che si sono ostinati a non prendere atto del disvelamento (durato un secolo e più) della natura di quel raggruppamento sociale erroneamente definito proletariato, sono ormai una piccola setta di meschini predicatori di quell’ideologia che si ostina ad inseguire il comunismo. Vedremo subito appresso che tale denominazione, nel pensiero di Marx e dei primi marxisti, non aveva proprio nulla a che vedere con la miserabilità della “comunità” fantasticata dagli avanzi di una mancata digestione.