STRATEGIE

Per una teoria di fase

 

IL NUOVO LIBRO DI GIANFRANCO LA GRASSA, Ed. Manifestolibri

 

Presentazione di G.P.

 

Vi proponiamo sul nostro sito (www.ripensaremarx.it) l’introduzione del nuovo libro di Gianfranco La Grassa (uscita prevista nel mese di maggio di quest’anno a cura della Manifestolibri), il cui titolo è Strategie, Per una teoria di fase.

Si tratta di una tappa importante nell’elaborazione del pensiero di La Grassa poiché con questo saggio vengono introdotte alcune novità teoriche che sono altrettanti passi decisivi nella direzione della comprensione della formazione capitalistica odierna (nonché delle varie sfere sociali nelle quali essa viene suddivisa per esigenze scientifico-interpretative), e che mettono a nudo, altresì, alcuni aspetti dell’ideologia dominante atti a sostenere lo sviluppo capitalistico complessivo di questa fase storica.

Non a caso, il Nostro parte dal pensiero di un economista di stampo liberale, come Friedrich List, per mettere in risalto i sedimenti ideologici della teoria del libero-scambio, nella ormai superata epoca storica in cui l’Inghilterra era la “nation prédominante” ma anche in quella attuale, dove la nazione primeggiante è quella Usa. Mentre economisti come Smith, Say e Ricardo erano profondamente convinti delle virtù del mercato e delle sue capacità di autoregolazione, sia all’interno di ciascuna nazione sia nei rapporti tra le diverse nazioni, List, pur non mettendo in discussione le basi teoriche del libero commercio internazionale, ritiene che sia necessaria una fase intermedia nella quale anche i paesi rimasti indietro nello sviluppo industriale, possano avvicinarsi al grado di crescita e innovazione raggiunto dai cosiddetti first comers.

Si tratta di un aspetto imprescindibile perché, come ben individuato dall’economista tedesco, senza questo preventivo livellamento nei gradini dello sviluppo tra nazioni (di una certa area geografica che List chiama “temperata”) si corre il rischio che “le nazioni più forti usino lo strumento della ‘libertà di commercio’ per ridurre in stato di dipendenza il commercio e l’industria di quelle più deboli”. Ovviamente, questa affermazione non può che evocare scenari a noi più familiari i quali, mutatis mutandis, vedono, non più l’Inghilterra, ma gli Stati Uniti essere la nazione predominante che impone, attraverso l’apparente neutralità delle regole del mercato o della democrazia di tipo occidentale, la sua supremazia in tutti i campi della società e del sapere collettivo.

Ciò non deve indurre a credere che, par exemple, la teoria dei costi comparati di Ricardo fosse semplicemente uno strumento ideologico (o un mero raddoppiamento, a livello di astrazione speculativa, volto a sorreggere “volontariamente” la formazione sociale inglese), al servizio di una precisa committenza, quella degli industriali inglesi che avevano tutto l’interesse affinché la propria supremazia (tecnologica, militare ecc. ecc.) restasse irraggiungibile. Ricardo non era un economista al soldo dei poteri industriali e finanziari, ma studiava e tracciava, con metodo scientifico, quella che secondo lui era la via più razionale per far progredire le società umane. Certo nel pensiero, anche in quello scientifico, è sempre all’opera uno zeitgeist che solidifica determinati paradigmi, li rende più “immediati” di altri e più resistenti alla decostruzione teorica, la quale può avvenire solo a piccoli passi, fino al momento in cui si condensa quell’evento singolare (all’apparenza improvviso) che ne stravolge le basi e apre il campo alle nuove acquisizioni e al conseguente “rapprendersi” di altri paradigmi. In sostanza, si vuole sostenere che non tutto è ideologia e non si deve incorrere nell’errore di considerare i pensatori del campo avverso al nostro come guardaspalle dei dominanti, almeno non in ogni caso.

Da questo punto di vista, List criticò radicalmente Smith e Say perché quest’ultimi avevano operato attraverso una confusione di principi che, al contrario, occorreva tenere ben separati: tali economisti avevano infatti affermato che la legalità economica, in quanto ‘naturale’, non era modificabile a piacimento, traendone da ciò un principio politico di passiva accettazione dell’esistente. List critica, invece, questa impostazione e sostiene che solo attraverso un’eguaglianza (tendenziale) della “spinta produttiva” delle varie nazioni, si sarebbe rinsaldato il libero scambio internazionale tra paesi dell’area temperata. A tal uopo, List si dice favorevole all’introduzione di dazi doganali sui prodotti industriali mentre rifiuta quelli sui prodotti agricoli (in quanto questi non erano determinanti in una fase in cui occorreva proteggere la propria industria nascente). Come fa ben notare La Grassa, List non esce dall’alveo dell’economia classica ma mette l’accento sull’ “eccezione politica” indispensabile per permettere alla norma (il reciproco vantaggio derivante dagli scambi internazionali) di funzionare meglio.

Quindi List, proprio come La Grassa in questo saggio, ma con obiettivi di tutt’altro tipo, non si preoccupa di elaborare una teoria generale della società valida per ogni epoca storica, ma si pone nell’ambito di una “teoria di fase”, al fine di dare slancio allo scostamento da alcune concezioni divenute deleterie rispetto all’urgenza del momento; nel caso di List l’obiettivo di breve periodo era quello di rafforzare la nascente industria tedesca, pur mantenendo sullo sfondo l’ambizione di mettere le nazioni dell’area temperata sulla strada del raggiungimento del cosmopolitismo liberale. 

Ma veniamo al sodo. Perché La Grassa va a ripescare List?  Perché “tale autore può servire ad iniziare un discorso critico sul neoliberismo e sulle sue smanie globalizzatrici; ma anche sul suo contrario (antitetico-polare) che è il neokeneysismo, in definitiva piegato in senso statalista (dunque non propriamente keynesiano a mio avviso), ideologia tipica della sinistra che si ritiene radicale”.   Sicuramente, oggi il problema principale non riguarda i paesi che producono manufatti industriali (l’Inghilterra delle rivoluzioni tecnologiche dell’ottocento) e quelli che dovrebbero accontentarsi di produrre buon vino (il Portogallo, secondo l’esempio di Ricardo).

Il mondo occidentale si è molto livellato da questo punto di vista ed è oggi rincorso anche dai vecchi giganti agricoli dell’Asia, i quali hanno imboccato lo stesso tipo di sviluppo (industriale, militare, finanziario ecc. ecc.). Come dire, produrre vino non era per loro così conveniente.

Ma anche lo stesso occidente è estremamente eterogeneo al suo interno, si tratta una formazione sociale globalmente capitalistica (quella dei funzionari privati del capitale) che è stata indelebilmente improntata dalla forma dei rapporti sociali emersi in una specifica formazione particolare, quella nata negli Stati Uniti d’America. Difatti, le regole “naturali” del libero-scambio favoriscono oggi gli Usa – così come ieri garantivano all’Inghilterra un predominio indiscusso – in tutti i settori di punta, costringendo gli altri paesi industrializzati ad arroccarsi nei settori di nicchia lasciati liberi dalla “nation prédominante”, oppure spingendoli a specializzarsi nei settori industriali “consumati” ai quali corrispondono mercati ad elevato livello di saturazione.

Anzi, l’atteggiamento delle classi dirigenti occidentali subdominanti è addirittura capovolto rispetto alle prescrizioni listiane, ovvero queste giungono a proporre dazi doganali sui manufatti cinesi anziché stimolare la crescita (anche con forme d’aiuto statali) delle imprese maggiormente innovative, proprio per non intaccare la superiorità americana (alla quale si piegano servilmente) in tali ambiti. Tutto questo discorso non può essere certo esaurito in questa breve presentazione da blog ed è opportuno leggere interamente il testo, anche se per ora dovrete accontentarvi dell’introduzione che inseriamo sul sito.

 

Nella seconda parte del libro La Grassa affronta invece il discorso sul “Capitale Finanziario” e sui suoi apparati, nell’ambito della formazione sociale attuale: “la finanza nasce dalla presenza del denaro, e quest’ultimo è il necessario duplicato della merce che è la forma generale assunta dai prodotti nella società moderna…”. Ogni qual volta il capitale finanziario si fa ipertrofico ed assume il davanti della scena sociale, si crede di essere entrati una fase di sfacelo dell’intero capitalismo in quanto esso avrebbe ormai raggiunto, con la massima centralizzazione dei capitali, i limiti del suo sviluppo (segnato, da un lato, dall’insanabile dicotomia tra proprietà parassitaria e cedolare disinteressata alla produzione, e, dall’altro, dalla formazione del lavoratore collettivo cooperativo che ha il pieno controllo della sfera produttiva).

Ma se si legge il fenomeno finanziario con la lente dei flussi conflittuali strategici (e questo vale per tutte le sfere nelle quali dividiamo, per esigenze d’interpretazione teorica, la società) si scopre che quest’ultimo (declinato nei suoi vari apparati: bancari, assicurativi, ecc. ecc.) collabora pienamente alla riproduzione complessiva del sistema, anche quando apparentemente sembra mandarlo in frantumi. In realtà, il denaro manipolato dagli “agenti finanziari” svolge il compito decisivo di “finanziare” le strategie conflittuali dei drappelli dominanti che operano in tale sfera. Può capitare che si verifichi uno scollamento tra sfera finanziaria e sfera produttiva (la quale ha ugualmente necessità del denaro per implementare ed innovare il campo nel quale si trova ad agire, quello della produzione appunto, laddove viene azionato il conflitto tra gruppi che sono direttamente implicati in tale sfera) e questo avviene poiché: “…gli agenti strategici dominanti della sfera finanziaria hanno a disposizione tale strumento di battaglia, e questo sanno usare in modo precipuo. In tal senso e a causa di quest’uso, il mezzo monetario diventa meramente speculativo”. Per questo s’interpreta spesso la crisi finanziaria come il punto di rottura dello stesso sistema capitalistico, ma proprio quando pare che tutto il palazzo stia per crollare si verifica, invece, un riposizionamento tra raggruppamenti dominanti lungo differenziali di dominio, da intendersi quale piazzeforti perse o conquistate nella reciproca lotta per primeggiare. Alla fine di questo combattimento serrato emerge una diversa “mappatura” del potere, si formano nuove alleanze e/o si sfaldano quelle vecchie, con i gruppi prima dominanti che escono indeboliti o ulteriormente rafforzati sui “concorrenti”, con relativa espulsione dal “mercato” degli agenti capitalistici meno efficaci ed efficienti. Come argutamente dice La Grassa: “le crisi sono infatti uno dei momenti di trapasso dal predominio di dati gruppi di quest’ultimi ad altri; mentre i dominati servono, in tali frasi di transizione da “carne da macello”, e sono a quest’esito condotti da politici e ideologi asserviti ai vari gruppi di dominanti fra loro in lotta, o succubi delle mene mistificatorie dei loro agenti politici e culturali”. La crisi finanziaria può fare così da preludio ad una crisi sociale di più vasta portata che si allarga alle altre sfere sociali (politica e ideologica), sottoponendo il sistema a gravi scossoni. Tuttavia, non vi è alcun parassitismo nell’azione finanziaria quanto, piuttosto, una costante rottura di certi equilibri a causa del flusso conflittuale sotteso a questa (al pari delle altre) sfera sociale.

Stando così le cose, si può sostenere che il capitale finanziario, lasciato a sé stesso, muove il primo passo che porta alla “distruzione” dei vecchi assetti ed è su queste “macerie” che viene a stagliarsi l’opera di “creazione”, da parte degli agenti che agiscono nella sfera politica e ideologica, i quali orientano, con rinnovato vigore, il processo di trasformazione (ri/produzione su nuove basi) del sistema. Si tratta di un elemento imprescindibile che assicura la massima dinamicità al sistema, questa è precisamente la “distruzione creatrice” stimolata dal flusso conflittuale interdominanti.

Con la corrente interpretazione di La Grassa si esce dal determinismo dei vari critici anticapitalistici e si smentisce definitivamente il canto delle sirene catastrofiste che prepara, consapevolmente o meno, il terreno all’avanzata di nuovi gruppi dominanti.

Ora devo però fermarmi per esigenze di spazio ma mi permetto, ancora una volta, di rinviarvi al libro (che ricordo uscirà in maggio) e all’introduzione pubblicata sul sito.

 

P.S. sul sito, tra le novità, troverete anche un articolo di La Grassa intitolato “SI SA ANCORA LEGGERE?”