Sull’antifascismo (di A. Berlendis)


Non voglio prendere qui in considerazione l’ennesima illusione formalistica, secondo la quale il problema principale della formazione sociale italiana consisterebbe nell’assetto degli organi statali delineato dalla Costituzione per cui la soluzione risiederebbe nelle roboanti riforme istituzionali.
Il campo conflittuale che si dispiega, ricalcando quello della coppia opposizionale destra/sinistra, diventa l’ennesimo lagrassiano ‘gioco degli specchi’: da una parte i difensori della mitica Costituzione e dall’altra i fautori – differenziati – di modelli futuristici d’ingegneria costituzionale esterofila. La prima comparazione che qui propongo non riguarda quindi il modello francese così come ci ammannisce per l’ennesima volta Sartori sull’organo della GF&ID
1, ma il rapporto tra il premier (italiano e francese) e dati apparati ideologici e dati apparati di Stato. Infatti, se osserviamo le diverse (re)azioni di fronte agli stessi episodi, avute dal presidente francese Sarkozy e dal premier italiano, ne risultano semplici ma chiare e istruttive lezioni. Sempre Sartori in un testo accademico sosteneva: “Perché comparare? Che cosa comparare? Come comparare? Sono queste le principali domande che ci si pone oggi in tema di analisi comparata. Si tratta di quesiti tanto più rilevanti quanto più la conoscenza e la spiegazione di altri casi, diversi dall’Italia, sono diventate indispensabili nel mondo attuale.”2 Ma, aggiungiamo noi, ancora più indispensabile, però è la scelta di che cosa non comparare, cioè quali eventi—che sarebbero irresistibilmente paragonabili—non debbano essere evidenziati, onde evitare l’incrinarsi (che rischierebbe poi di far emergere proprio ciò che si vuole coprire) della lettura ideologica dominante a proposito, sia del presunto avvento che del manifestarsi del ‘fascismo’ berlusconiano.

 

1. Prima di svolgere la comparazione occorre però una premessa necessaria. L’abbandono prima e la rimozione poi non solo di una qualche definizione strutturale del fascismo, ma di una qualsiasi definizione (almeno quella togliattiana—al di là della validità o meno che vogliamo attribuirle— di ‘regime reazionario di massa’), ha avuto come risultato, quello di scambiare qualsiasi sintomo o accentuazione di tratti della forma del dominio statale, quando vada spostandosi (ciclicamente e reversibilmente in date congiunture storico-politiche) dalla forma democratica verso quella autoritaria—e voglio essere qui chiaro che non è il nostro caso odierno—per insediamento del fascismo. Occorre invece partire dalla constatazione che il fascismo, come tutti i fenomeni storici, nella sua singolarità è sì finito e irripetibile nella medesima forma (secondo la formula ‘tutto torna, ma diverso’), però nel suo accadere ha mostrato aspetti generali della sfera politica della formazione sociale capitalistica (secondo la formula ‘tutto torna, ma diverso’): in primo luogo che il dominio condensato nello Stato può assumere la forma democratica o autoritaria poiché forme complementari e non escludentesi secondo le contingenze, per lo svolgimento della stessa funzione coadiuvante la riproduzione di una formazione sociale; in secondo luogo, che la forma autoritaria è l’eccezione (fascismo, nazionalsocialismo e fenomeni analoghi rientrano nella categoria di Stato d’eccezione), mentre leniniamente la regola è “La repubblica democratica è il migliore involucro politico possibile per il capitalismo.”3, quindi il capitalismo non ha tendenze intrinseche irresistibili alla cosiddetta ‘fascistizzazione’.

 

Fra i sintomi ritenuti significativi dell’instaurarsi, indefinito nel tempo, del ‘fascismo’ di Berlusconi—in realtà ipotetiche accentuazioni della dimensione autoritaria del dominio—,si evidenziano sempre: a) il controllo (diretto o indiretto) operato sui mass-media e b) la tendenza a ostacolare e mettere sotto controllo la magistratura. Eppure, rispetto alle vicende della sua vita privata Berlusconi ha subito la simultanea campagna mediatica degli organi della GF&ID e in crescendo andando verso ‘sinistra’ (‘La Repubblica’, ‘L’Unità), e un complesso di iniziative di determinati settori dell’apparato giudiziario con l’obiettivo convergente di indebolirlo politicamente. A fronte di analoghe vicende (la pubblicazione sul Journal de Dimanche di indiscrezioni circa le vicende private) accadute di recente al presidente francese cosa è successo? Apprendiamo sì che “l’autore e il direttore di Newsweb sono stati licenziati” e “la procura di Parigi ha avviato un'inchiesta preliminare sulle indiscrezioni pubblicate dai media4, ma lo abbiamo potuto leggere solo a pag. 34 nella sezione "Esteri" de ‘L’Unità’ del 7 aprile 2010 ed a pagina 16 sezione ‘Politica Estera’ de ‘La Repubblica’ del 6 aprile 2010. Qui si pone per l’analisi comparata un increscioso dilemma: Sarkozy si trova in una fase più avanzata di instaurazione del fascismo rispetto a Berlusconi, oppure, più semplicemente, dispone di un controllo sugli apparati statali giudiziari ed un appoggio dei media dei gruppi strategici capitalistici dominanti che Berlusconi non ha? Forse sarà che gli ex-Pci, non solo hanno rimosso la sopraccitata definizione togliattiana del fascismo ma sono diventati i referenti politici di quella che Togliatti stesso definì «la parte peggiore della borghesia italiana, quella che non ha mai fatto l'abitudine a una scuola di pensiero, quella che è classe dominante unicamente per una specie di diritto di ereditarietà; ma non possiede alcuna delle qualità che occorrono ai dirigenti di uno Stato»5. E contro ogni personalizzazione—oggi tanto in voga come canone interpretativo di fenomeni politico-sociali—lo stesso Togliatti chiariva che: “Noi vediamo la rovina a cui è stato portato il nostro paese. Sappiamo che i responsabili di questa rovina non sono stati soltanto Mussolini e un pugno di gerarchi, ma sono state le caste dirigenti reazionarie italiane, i grandi proprietari di terre scorticatori di contadini poveri e medi, il grosso capitale monopolistico, i gruppi finanziari imperialistici e così via. Sappiamo,…,che bisogna impedire a questi gruppi di …esercitare un predominio politico6 A tal proposito occorre però tenere presente che l’antifascismo del Pcd’I durante il fascismo, era fondato su un’analisi che collocava le basi sociali del fenomeno fascista nei gruppi di agenti capitalistici ritenuti più arretrati e parassitari che avrebbero impedito lo sviluppo della formazione sociale italiana. Quest’analisi era profondamente errata perché mediante la prevalenza degli agenti strategici della sfera politica rispetto agli agenti strategici delle sfera economica, esso espresse una tendenza a mettere l’azione della finanza a disposizione dello sviluppo industriale7 (pur con minore incisività rispetto al nazionalsocialismo), e quindi a promuovere lo sviluppo della potenza come base della sovranità nazionale. Questo avvenne nella forma politica dello Stato d’eccezione e nella forma ideologica del nazionalismo imperialistico: forme che videro la giusta e coraggiosa opposizione degli effettivi antifascisti, in primis i comunisti, senza dimenticare gli azionisti storici. Successivamente però, il mantenimento dell’antifascismo pur in assenza del fascismo ha provocato prima, la progressiva scomparsa di quella forma specifica dell’antifascismo, e ha condotto poi alla degenerazione ed evaporazione di ogni contenuto storicamente e politicamente determinato dell’antifascismo e quindi alla conseguente prevalenza di una versione dell’antifascismo che si è sempre più caratterizzata quale ideologia indefinita e quindi manipolabile ad ogni scopo. Infatti si è andato qualificando come “l’atteggiamento morale complessivo che tiene nei confronti di chi considera un suo avversario. Al nemico non si può concedere nulla da nessun punto di vista: il ‘fascista’ non sta perseguendo in buona fede quello che lui ritiene sia il bene della collettività, avendo però un’idea errata di quel bene e di come lo si possa raggiungere, ma è un individuo moralmente spregevole intento a perseguire il proprio esclusivo interesse personale; non è un uomo di cultura ma cultura sbagliata, è un uomo di non cultura; non è un membro della comunità nazionale che concepisce quella comunità in maniera distorta, è un non-italiano8 Questo processo ideologico si è dispiegato intensamente “A partire dalla fine degli anni settanta,…allorché la versione dell’Antifascismo che vede la soluzione dei mali dell’Italia in una rivoluzione di carattere morale più che economico e sociale, sembra crescere a discapito delle altre dimensioni. L’ Antifascismo di matrice azionista, politicamente sconfitto … fin dall’immediato dopoguerra, ma rimasto intellettualmente vivace nei decenni successivi, si prende infine la sua rivincita9 Rivincita consentita nell’essere questo tipo di antifascismo di tipo moralistico indeterminato, che connota il fascismo come un generico e invariante autoritarismo, tale che ha rappresentato in primo luogo il terreno fertile della genesi, ed in secondo luogo della sua trasformazione, senza soluzione di continuità, nell’antiberlusconismo. Questo processo è stato preceduto, logicamente e cronologicamente, dalla vile e colpevole rimozione degli attori fondamentali (i comunisti) e dello scopo principale (la trasformazione sociale) di quella che fu la resistenza. In attesa che giungano gli storici di ben altra caratura, invocati da GLG, è paradossale, ma forse non tanto, che oggi per sentir ribadire queste verità storiche si debbano leggere pagine di studiosi non provenienti dalla cultura dei rinnegati ex-Pci. Contro la vacua e falsa retorica propalata in modo tambureggiante da costoro, della resistenza come pervasa dal fu
oco sacro della Liberazione Nazionale, è stato pacatamente osservato che “La Resistenza avrà certamente anche avuto un carattere nazionale, ma la sua nazione non è stata di certo quella dei burocrati, dei diplomatici e delle classi dirigenti: è stata quella delle masse popolari—quando non della classe operaia—che aspiravano a liberarsi dell’ingiustizia e dell’oppressione sociale almeno tanto quanto dell’esercito nazista.”
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L’antifascismo praticato dal Pcd’I durante la vigenza storica del fascismo voleva svelarne il suo blocco sociale, l’antifascismo divenuto antiberlusconismo vuole invece celare la verità secondo cui la costante insinuazione circa il ‘fascismo’ berlusconiano ha la funzione di mascherare il fatto che le forze più pericolose (la—seppur indebolita—GF & ID con le sue propaggini politiche preferite annidate a sinistra ma con le opportune diramazioni a destra) sono invece proprio quelle che più gridano al pericolo di Berlusconi. Queste sono le vere forze reazionarie (intreccio di agenti strategici della sfera economica con e agenti strategici della sfera politica sotto il comando dei primi, a loro volta sottoposti ai dominanti Usa) in quanto cercano di favorire una finanza non finalizzata allo sviluppo dei nuovi settori strategici, che costituiscono la base per il mantenimento di un margine di sovranità e autonomia d’azione nazionale.

 

 

 

2. Il (semi)presidenzialismo francese e la trasfigurazione dell’antifascismo sopra richiamati suggeriscono una comparazione con un altro modello, quello del Cile anni sessanta e settanta del ‘900. Cominciamo con il ricordare l’esito elettorale cileno di allora: “Il candidato di Unidad Popular nelle elezioni presidenziali, Salvador Allende, vinse nel settembre del 1970 soltanto con una maggioranza relativa, perché ottenne il 36,2 % contro il 34,9 % del conservatore Alessandri e al 27,8 % del democristiano Tomic.”11 Secondo una leggenda politica consolidata, dalla successiva vicenda storica cilena sfociata nel colpo di Stato di Pinochet, Berlinguer ed il gruppo dirigente del Pci trassero la convinzione che “la contrapposizione e l’urto frontale tra i partiti che hanno una base nel popolo e dai quali masse importanti della popolazione si sentono rappresentate, conducono a una spaccatura a una vera e propria scissione in due del paese, che sarebbe esiziale per la democrazia e travolgerebbe le basi stesse della sopravvivenza dello Stato democratico. Di ciò consapevoli noi abbiamo sempre pensato – e oggi l’esperienza cilena ci rafforza in questa persuasione – che l’unità dei partiti di lavoratori e delle forze di sinistra non è condizione sufficiente per garantire la difesa e il progresso della democrazia ove a questa unità si contrapponga un blocco di partiti che si situano dal centro fino alla estrema destra.”12 E da qui ne concludevano che “una politica di rinnovamento democratico può realizzarsi solo se è sostenuta dalla grande maggioranza della popolazione, ne consegue la necessità non soltanto di una politica di larghe alleanze sociali ma anche di un determinato sistema di rapporti politici, tale che favorisca una convergenza e una collaborazione tra tutte le forze democratiche e popolari, fino alla realizzazione fra di esse di una alleanza politica”13 L’esito politico italiano di questa comparazione sarebbe quindi consistito nella linea del compromesso storico con la Dc. Come nel caso precedente, anche qui diventa rilevante la scelta dell’oggetto da non comparare. Infatti se si parte dall’esito elettorale del 1970 si ignorano volutamente alcuni dati di realtà macroscopici. Un primo dato è rappresentato dal fatto che “la Costituzione cilena subì importanti modifiche tra il 1925 e il 1973, indirizzate al primo riconoscimento dei diritti economici e sociali, come è accaduto in altri Paesi dopo l’approvazione della Costituzione di Weimar. Fermo rimaneva, invece, il problema della detenzione del potere e dell’indirizzo politico, restando predominante la figura del Presidente e debole quella di un Parlamento all’interno del quale nessun partito politico riusciva ad avere la maggioranza. Questa continua instabilità istituzionale, controbilanciata solo da un ruolo forte dell’organo monocratico condusse in Cile,…., al periodo rivoluzionario, condotto avventatamente da socialisti e democristiani in nome della libertà, ma in realtà privo di un programma definito e concreto.”14 Un secondo dato di realtà è contenuto nel Rapporto dell’equipe del Comitato scelto ‘Covert action in Chile, 1963-1973’ (a cura del Senato degli Stati Uniti, del 18 dicembre 1975) in cui si afferma che “Le azioni clandestine degli Stati Uniti in Cile nei dieci anni compresi tra il 1963 e il 1973 sono state ampie e continuate. La Cia ha speso 3 milioni di dollari per tentare di influire sulle elezioni presidenziali cilene del 1964. Tra il 1970 e il colpo di Stato militare del 1973 sono stati spesi 8 milioni di dollari.”15 Ciò era inoltre ad esempio avvalorato pubblicamente dalla denuncia che il senatore democristiano cileno Fuentealba (ex ambasciatore all’Onu con cui il Pci teneva un canale di comunicazione) pronunciò in Senato il 3 dicembre 1969 con queste sibilline parole l’azione Usa in Cile iniziata nei primi anni Sessanta: “Scorgo in questa campagna le orme e i metodi della CIA per abbattere governi in altri paesi. L’imperialismo economico, il governo degli Stati Uniti e la Cia hanno operato finora in perfetto accordo per far crollare i governi […] Lo hanno fatto in Guatemala rovesciando Jacobo Arbenz, per salvare l’impero delle banane della United Fruit, in Iran contro Mujmad Mossadegh per appropriarsi del petrolio e consegnarlo alla Standard Oil, in Brasile contro Joao Goulart per impedire che continuasse il processo di trasformazione nel paese.” 16 Il terzo dato era il fatto incontrovertibile che Unidad Popular "Cercava costantemente accordi con l’opposizione borghese e in particolare con la Democrazia cristiana. Le principali riforme che stava attuando erano la riforma agraria che era stata deliberata dal precedente governo democristiano e la nazionalizzazione delle miniere del rame in mano alle multinazionali nordamericane che era stata votata dal parlamento all’unanimità!”17. Allo stesso tempo si tenga presente che “Il rapporto Church ha messo in evidenza come già nel 1970 la Cia collaborasse attivamente con i democristiani e il partito nacional (di destra) per fomentare la crescita dell’opposizione a Unidad Popular tra i ceti medi e popolari […] e che il collegamento tra l’opposizione esterna—quella americana—e l’opposizione interna—quella gestita dalla Dc e dal partito nacional—sopravvisse indisturbata alla vittoria di Unidad Popular.”18 Da questi fatti risulta arduo far discendere una scelta come quella del gruppo dirigente berlingueriano perché: a) la costanza dell’instabilità istituzionale indica che essa non era attribuibile alla vittoria della coalizione di Unidad Popular; b) gli Usa intervenivano attivamente già da molto prima della vittoria elettorale di UP, significa che non era la politica di UP di per sé ad ostacolare la loro azione geopolitica quindi era pretestuoso attribuire alle eccessive richieste sociali di UP il colpo di Stato, ma all’instabilità dell’ordine interno e geopoliti
co che entrambe le forze (UP e Dc
19) si erano dimostrate incapaci di gestire; c) il carattere contraddittorio della ricerca di accordi per la trasformazione dell’assetto sociale con una forza quale la Dc cilena20 che, per quando divisa al suo interno, costituiva uno dei referenti politici degli Usa al fine di mantenere l’ordine vigente (si ricordi a tal proposito che Allende fu eletto con voto parlamentare da una maggioranza composta anche dalla Dc cilena). Se quindi da queste premesse non era quindi deducibile la linea del compromesso storico, da dove proveniva? Veniva da lontano, dalla scelta di integrazione nel sistema politico italiano effettuata dal rifondato Pci togliattiano, che indicava il compromesso tra le principali forze politiche e sociali della formazione sociale italiana la metodologia invariante della ‘via italiana al socialismo’. Nella sua altisonante retorica il linguaggio ideologico cifrato di quella linea politica voleva mascherare tre direzioni convergenti di orientamento che la sostanziavano e produssero effettivi risultati. Primo, le cosiddette ‘lezioni dal Cile’ esprimevano la rassicurazione verso gli Usa cioè l’accettazione come legittima della dipendenza del nostro paese, e la conseguente rinuncia ad ogni margine d’azione indipendente—lasciamo stare trasformazioni sociali profonde—che non fossero gradite agli Usa ed ai loro referenti italiani. Secondo, ‘l’introduzione di elementi di socialismo’ costituì la richiesta compartecipazione al sottogoverno verso la Dc, non più solo al governo locale ma anche direttamente a livello centrale degli apparati dello Stato (pur non in quelli decisivi) ed a ampliare significativamente le proprie quote di spesa pubblica. Terzo, il ‘partito di lotta e di governo’ si indirizzò verso il contenimento della domanda politico-sociale di cui era divenuto collettore. La linea del compromesso storico rese visibile non solo le scelte politiche di fondo del Pci, ma soprattutto fece emergere in superficie le conseguenze che aveva comportato l’essere diventati la componente di sinistra nel normale funzionamento degli apparati statali rappresentativi della sfera politica. Questo provocò un cortocircuito di cui il sintomo l’acuirsi dello scarto strutturale tra la rappresentazione del gruppo dirigente con quella della base, riguardante non solo la linea politica ma anche gli obiettivi di fondo della linea stessa. In uno studio a ridosso di quel periodo già si rilevava che la concezione che hanno del compromesso storico il gruppo dirigente e la base del partito è profondamente diversa. I dati …sono a questo proposito molto eloquenti. Per il gruppo dirigente il compromesso storico non è una tattica, una politica valida per un periodo di tempo molto limitato, ma una strategia, una linea di lungo periodo. Per gli iscritti invece è vero esattamente l’opposto. Solo il 15% di questi interpreta infatti il compromesso storico nello stesso modo del gruppo dirigente, mentre per tutti gli altri questa politica è una mera tattica. Ma una tattica per che cosa, per raggiungere quali fini? Per la grande maggioranza degli iscritti al Pci la tattica del compromesso storico mira ad aprire un processo profondo di cambiamento dei rapporti di forza fra i partiti politici italiani…21 L’esito poi del compromesso storico fu, in ultima istanza, quello di (di)mostrare il fallimento della togliattiana ‘via italiana al socialismo’, lasciando il Pci senza nessuna ipotesi strategica alternativa, da cui lo spostamento verso la sfera morale (in realtà ipocritamente moralistica) della (ormai presunta) diversità. Nelle parole di uno storico: “L’attenzione si spostava così gradualmente dalla questione dell’assetto economico e sociale del paese alla questione del tessuto etico, e quanti cercavano di risolvere in una prospettiva Antifascista il problema storico dell’arretratezza italiana cominciavano a guardare sempre di più verso una riforma …morale, e sempre di meno verso il ‘riformismo di struttura’. […] anche l’enfasi che a partire dagli anni ottanta Enrico Berlinguer pose sulla questione morale mi pare figlia di questo clima: il tentativo di evidenziare e salvaguardare sul piano sovrastrutturale una ‘diversità’ che sul terreno della ‘struttura’ il Pci faceva sempre più fatica a conservare22

 

Se prima avevamo (di)mostrato come l’antifascismo astorico era stata la premessa incubatrice da cui era sorto l’antiberlusconismo, possiamo ora cogliere come l’esaurimento di una linea politica nella deriva moralistica berlingueriana, a sua volta è stato il terreno di coltura di quell’antifascismo (moralisticamente) astorico. Concludo con un’ultima analogia casuale ma inquietante: il Pci condusse la campagna elettorale regionale del 1975 presentandosi come il ‘partito dalle mani pulite’, mentre i rinnegati ex-Pci ormai Pds, furono i principali beneficiari del colpo di Stato giudiziario di Mani Pulite… costituendo il referente politico interno al nostro paese per gli Usa. Esattamente come fece la Dc cilena approvando il golpe. Solo che i dominanti Usa disponevano, anche allora, di più carte, a seconda del tipo di gioco che ritengono utile praticare … quello dello duro ma breve dello Stato d’eccezione o quello morbido ma di lunga durata dello Stato cosiddetto ‘democratico’.

 

1 Sartori ‘Perché è preferibile il modello francese.’ Corriere della sera 9 aprile 2010

2 Sartori-Morilino ‘La comparazione nelle scienze sociali’ Mulino editore pag. 7

3 Lenin ‘Stato e rivoluzione.’ Editori Riuniti

4 http://www.unita.it 7 aprile 2010

5 P. Togliatti, Opere, I, pp. 279-280 Non è questa la sede per discutere la responsabilità che il Pci togliattiano ebbe proprio nel rimettere il sella quelli che gli stessi repubblichini definivano ‘l’infido Agnelli’…

6 P. Togliatti L’Unità 8 agosto 1944 in Opere scelte.

7 Pur se in linguaggio economicista questo è stato faticosamente ammesso anche da storici provenienti dalla cultura di sinistra. Ad esempio secondo Castronovo il fascismo ha operato una “parziale modernizzazione del sistema produttivo , nel 1936 l’industria superò per la prima volta l’agricoltura in termini di prodotto lordo e di occupazione” in ‘La politica economica del fascismo.’ contenuto in ‘Il Parlamento italiano’ Nuova CEI pag. 26

8 Orsina ‘Antifascismo e antiberlusconismo.’ In ‘L’ossessione del nemico. Memorie divise nella storia della Repubblica.’ Donzelli pag. 170

9 Orsina ‘Antifascismo e antiberlusconismo.’ cit. pag. 176

10 Orsina ‘Antifascismo e antiberlusconismo.’ cit. pag. 168

11 Carmagnani ‘Unidad Popular’ in Il mondo contemporaneo ‘Storia dell’America Latina’ La Nuova Italia editrice pag. 410

12 Berlinguer ‘Riflessioni sull'Italia dopo i fatti del Cile ‘- Rinascita, 12 ottobre 1973

13Berlinguer ‘Riflessioni sull'Italia dopo i fatti del Cile ‘- Rinascita, 12 ottobre 1973

14 Huneeus ‘Le elezioni presidenziali e parlamentari del 2005-2006 in Cile: l’importanza della memoria.’ Quaderni dell’Osservatorio della ragione Toscana – n° 58 del 2007

15 Documento riportato in Selser ‘Gli artigli dell’aquila. Il colpo di Stato contro Allende.’ Edizioni Associate pag. 127-128

16 ‘El Diario Ilustrado’ 4 dicembre 1969 – Riportato in Selser ‘Gli artigli dell’aquila. Il colpo di Stato contro Allende.’ Edizioni Associate pag. 33

17 Bagarolo ‘Cile 11 settembre 1973. La tragedia del riformismo.’ In Marxismo rivoluzionario n. 2 (ottobre-dicembre 2003)

18 Carmagnani ‘Unidad Popular’ cit. pag 412

19 Si rammenti che il precedente governo Frei, avviò moderata riforma agraria e promosse la partecipazione dello Stato nell'industria mineraria. Intraprese anche un programma di sviluppo sociale: riformò la pubblica istruzione, varò un piano di edilizia popolare e di assistenza alla maternità. In politica estera incrementò la collaborazione tra gli Stati sudamericacani per formare un mercato unico. Il sociologo cileno Huneeus a proposito della politica seguita dopo il colpo di Stato sostiene che «Il progetto di modernizzazione economica dell’autoritarismo non fu neutrale politicamente, ma si propose di creare le condizioni per un sistema economico e politico favorevole ai gruppi conservatori e fu molto ostile nei confronti dei sindacati e dei partiti di centro e sinistra che avevano dominato la politica dalla fine degli anni Cinquanta».

20 Si veda il significativo titolo ‘Un’occasione mancata: l’ipotesi di un accordo di governo tra Unidad popular e PDC’ del capitolo incluso nel volume di Santoni ‘Il PCI e i giorni del Cile. Alle origini di un mito politico.’ Carocci editore

21 M. Barbagli, P. Corbetta, S. Sechi, Dentro il Pci, Bologna, il Mulino, 1979. pag. 45 Originariamente lo studio ‘Una tattica due strategie. Inchiesta sulla base del Pci’, fu pubblica nella rivista "Il Mulino", n. 6, 1978, pp. 922-967

22 Orsina ‘Antifascismo e antiberlusconismo.’ Cit. pag. 178