SVILUPPO E RAPPORTI SOCIALI

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1. Per non allungare eccessivamente lo scritto e soprattutto per non appesantirlo di troppe citazioni, invito il lettore a tenere presente (e, se ha i testi, a metterseli a portata di mano) la marxiana Prefazione a Per la critica dell’economia politica (1859) e l’ultimo paragrafo del capitolo XXIV del I libro de Il Capitale (quello sull’accumulazione originaria). Nel sito Ripensaremarx sono poi inseriti brani tratti dal Capitolo VI inedito e dal libro III de Il Capitale, che torneranno anch’essi utili.
La Prefazione del ’59 è il testo più “incriminato” di Marx, quello in cui si sostiene esserci il massimo di economicismo e di determinismo. Nel suo Manuale di Economia politica, Oskar Lange (autore neoclassico che si “mascherò” talvolta da marxista, soprattutto quando ebbe un’importante carica nel Governo polacco degli anni ‘60) parlò delle due presunte leggi fondamentali del “Materialismo storico”, tratte evidentemente dalla semplicistica lettura dello scritto marxiano in questione: 1) lo sviluppo delle forze produttive determina la trasformazione dei rapporti (sociali) di produzione; 2) il mutamento della base o struttura economica della società (che è l’insieme dei rapporti di produzione) determina la trasformazione delle sovrastrutture (politiche e ideologiche).
Di fronte alle critiche che piovvero sulle tesi della Prefazione già nell’ 800, Engels rispose che, in realtà, nel rapporto causa-effetto tra forze produttive e rapporti di produzione e tra base economica e sovrastruttura, si poteva verificare anche un’azione di ritorno dell’effetto sulla causa, quindi una inversione di ruoli. Risposta assai debole, che pretendeva di attenuare il meccanicismo semplicemente ammettendo una sua possibile manifestazione nei due sensi e non soltanto a senso unico; pur ribadendo comunque che l’azione principale era quella delle forze sui rapporti e della base sulla sovrastruttura. La risposta di Engels – che aveva scritto non solo il testo “manualistico” (largamente usato nelle varie scuole dei partiti comunisti terzinternazionalisti), l’Antidühring, ma anche l’infelice (almeno a mio avviso) Dialettica della Natura – dimostra come nel marxismo, dottrina iniziata con lui e perfezionata da Kautsky, la dialettica, che si presumeva di aver ereditato da Hegel, sia sempre stata invece una semplice interazione, per di più con uno dei due elementi in relazione capace di esercitare, “in ultima analisi o istanza” (formuletta di grande uso nel marxismo scolastico), l’azione più robusta e prevalente.
La scuola althusseriana – cui ho appartenuto e che giudico quanto di meglio abbia prodotto il marxismo nella seconda metà del ‘900 – sviluppò la più acuta e aspra critica al determinismo economicistico del marxismo, arrivando talvolta a sostenere che la succitata Prefazione non era marxista. Personalmente, non sarei così severo con quel brevissimo testo, che in fondo esprimeva in forma succinta l’essenziale della concezione marxiana. L’essenziale si dice sempre con poche parole; sono dunque inevitabili le semplificazioni. Mi sembra scorretto polemizzare con un autore sulla base dei brevi scritti in cui egli cerca di sintetizzare la sua concezione. Chi fa queste polemiche (non gli althusseriani, sia chiaro) spesso non vuole leggere molto di quel pensatore, pretende di conoscerlo con il minimo sforzo. E’ anche lecito farlo in certi casi, ma solo quando uno studioso, in fondo, segue una impostazione, una “scuola”, diversa; allora approfondisce questa, si attiene alla sua linea di ricerca e legge gli altri autori, di altre “scuole”, senza troppo approfondirli poiché li prende in considerazione solo quale alimento (una sorta di affluente minore) di quelli che costituiscono il suo “affanno”, la sua “ossessione”. E’ però necessario essere sinceri, far comprendere l’uso che si fa di certi pensatori per i propri fini di studio (altrimenti indirizzato) e non mettersi dunque a criticare aspramente questi ultimi in base a poche letture dei loro testi più sintetici e riassuntivi.
Di quella prefazione riterrei, ad esempio, la lucida presa di posizione in merito al fatto che non si può giudicare un’epoca (così come un individuo) in base alla coscienza che essa ha di se stessa. Tale coscienza è viziata dall’ideologia (o ideologie) formulata dagli intellettuali della classe dominante al fine di rendere oscuro, comunque il meno visibile possibile, il suo predominio. L’azione politica di chi, in determinati periodi critici della struttura di rapporti caratterizzante quella “storicamente determinata” epoca della formazione sociale, vuol mettere a soqquadro le specifiche forme
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del predominio in essa vigenti non può esimersi dall’importante opera di disvelamento di quel dato e peculiare mascheramento ideologico.
Il conflitto “di classe” viene sempre combattuto, ci dice Marx, sul piano politico e ideologico; il conflitto esiste dunque nelle sue manifestazioni “sovrastrutturali”. Ma non si combattono i dominanti solo in base al disvelamento delle loro mistificazioni ideologiche; la battaglia è certo di carattere ideologico ma si nutre di attenzione (e di analisi) delle cosiddette condizioni oggettive, “strutturali” o “di base”, sussistenti in quella fase specifica della formazione sociale esistente in quella data epoca; perché il mutamento è possibile in congiunture di crisi, che solo un successivo impoverito (e dottrinario) pseudo-marxismo ha ridotto alla crisi economica (fatta eccezione per i marxisti rivoluzionari come Lenin).
Certamente, è meno accettabile il riferimento di Marx alle scienze naturali, alla cui (presunta) esattezza egli riallaccia pure l’analisi strutturale del modo di produzione e della formazione (economica) della società. Credo che nemmeno nelle scienze della natura esista oggi la pretesa di tale esattezza, ma non entro in simile discussione che non mi compete. In linea di principio, non sono però d’accordo con la convinzione che il pensiero sia in grado di riprodurre la realtà così com’essa è. Si tenga comunque presente il clima culturale dell’ottocento, pregno di illuminismo e, ancor più, di positivismo. Marx ammette in ogni caso (nell’Introduzione del 1857) che il “concreto di pensiero” si distingue nettamente dal “concreto reale”, è qualcosa di diverso rispetto a quest’ultimo. Ogni tesi del semplice “rispecchiamento” del secondo nel primo è piuttosto superficiale, poiché ogni pensiero, come minimo, effettua una selezione (e assai drastica) dei dati del mondo reale nel rappresentarselo; ed un marxista dovrebbe ammettere che la selezione è il portato del nostro agire in funzione dei nostri “bisogni” (non banalmente materiali e legati, fra l’altro, alle esigenze del conflitto nella società), ecc.
Di conseguenza, si deve almeno accettare che la riproduzione del reale è qualcosa di scheletrico e che, inoltre, gli elementi reali, selezionati in base ai “bisogni” e all’azione, possono anche fornire una rappresentazione in qualche modo deformata della realtà riprodotta (“nel cammino del pensiero”). Personalmente, temo che non sussista nemmeno tale riproduzione, pur schematica a causa della selezione effettuata dal pensiero. Mi convincono di più le tesi secondo cui noi costruiamo la “realtà”, e dunque la “produciamo”, formulando ipotesi (e nulla più che ipotesi); ad esempio, non credo esista una struttura del reale, quest’ultima nasce dal nostro “mettere ordine” e “dare sistematicità” a ciò che si pensa. Ho molte perplessità in merito alla tesi galileiana secondo cui il “libro della Natura” è scritto in linguaggio matematico e il nostro solo compito sarebbe di decrittare le sue frasi. Anche in tal caso, però, non entro in discussioni sulle scienze naturali. Credo in ogni caso che, nelle scienze sociali, dopo aver costruito un “(non) concreto di pensiero” tramite elaborazione teorico-ipotetica, agiamo e proviamo l’efficacia dell’azione (che non è soltanto quella cui ci si riferisce nel linguaggio comune), quindi quanta “presa” essa ha sul “mondo”; una presa sempre assai parziale, tanto parziale che non si è mai arrestato il processo di revisione delle ipotesi o addirittura la loro sostituzione con altre del tutto diverse, ecc. Non è però questo l’aspetto che più mi interessa discutere; questi pochi cenni sono sufficienti per capire quale posto occupi nel mio pensiero la funzione della formulazione di teorie.
2. Non è lecito comunque discutere del preteso determinismo marxiano, delle pretese “leggi” del materialismo storico che egli avrebbe “scoperto”, senza tenere conto del complesso della sua teorizzazione. Nelle poche, ed estremamente brillanti, pagine da lui scritte sulle tendenze storiche dell’accumulazione originaria (alla fine del capitolo de Il Capitale a questa dedicato), Marx delinea la sua idea – sempre in sintetici termini “essenziali” – in merito al comunismo quale “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. Nei secoli di transizione dal feudalesimo al capitalismo (al modo e ai rapporti di produzione capitalistici) fiorisce la piccola produzione mercantile (semplice): cioè quella attuata da artigiani e – come si direbbe oggi – da “coltivatori diretti”. In entrambi i casi, si tratta di individui ormai liberi dai vincoli della servitù della gleba e da quelli corporativi nelle cit-
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tà. Essi producevano con il lavoro proprio (e della propria famiglia), al massimo coadiuvati da pochissimi lavoranti pagati, immettendo i loro prodotti nel mercato in competizione concorrenziale fra loro.
Una simile situazione implicava lo sminuzzamento della proprietà, una bassa produttività dovuta alla possibilità di usare solo strumenti ancora tecnologicamente assai primitivi, in pratica quelli dei secoli passati, che avevano conosciuto un progresso assai lento ed erano in fondo un prolungamento (e potenziamento) del braccio e della mano dell’uomo. Marx afferma esplicitamente che voler perpetuare un simile modo di produrre (come pretendevano i “romantici dell’economia” del tipo dei vari Sismondi) significava “decretare la mediocrità generale”. Tale produzione (mercantile semplice) non può durare a tempo indeterminato perché la concorrenza rovina i più e concentra la proprietà (dei mezzi produttivi) in un numero relativamente ristretto di quelli che vennero denominati, da allora in poi, capitalisti [per inciso, ma evidenziando un punto decisivo, si tenga presente che il capitalista, nella visione marxiana, è il proprietario (privato) dei mezzi produttivi, e che il capitalismo è un modo di produzione pensato da Marx sulla base di tale forma di proprietà. Trattare da capitalistica la società odierna dei funzionari del “capitale” – in cui la funzione strategica definisce gli agenti effettivamente dominanti, posti al vertice della formazione sociale, che non sono semplicemente proprietari, anzi possono perfino non esserlo – o quella emergente nelle nuove potenze in crescita ad est o comunque nelle aree del fu Terzo Mondo, è veramente immergere ogni forma sociale nella famosa “notte in cui tutte le vacche sono nere”. Tale atteggiamento, che è il nostro (mi ci metto in mezzo anch’io), sta procurando una confusione concettuale che impedisce l’avanzamento teorico decisivo. Siamo veramente, per riprendere una metafora engelsiana, al flogisto che impediva di afferrare il concetto di ossigeno e quindi di capire il funzionamento reale della combustione. Lo stesso sta accadendo, da tempo immemorabile, per il funzionamento del sedicente capitalismo; questo concetto confuso, indistinto, ormai troppo generale, è il nuovo flogisto! Ripeto per i distratti: questo è il nodo essenziale, senza sciogliere il quale si continuerà ad analizzare la società odierna in modo approssimativo, sbilenco, tentennante].
Marx considera con favore, ed esplicita ammirazione, la nascita della forma capitalistica da quella mercantile semplice (altro che il malinconico ripiegamento dei “sismondiani” odierni verso la produzione nell’“orto vicino casa”; Marx li avrebbe trattati con un linguaggio talmente sprezzante che il mio apparirebbe come una “carezza” nei confronti di questi autentici mentecatti, esclusivamente meritevoli d’essere buttati in qualche discarica di “munnezza”). Soltanto il capitalismo, con la concentrazione della proprietà, consente la “trasformazione dei mezzi di produzione individuali e dispersi in mezzi di produzione socialmente concentrati” (corsivo di Marx). E solo questa concentrazione permetterà la sostituzione dei semplici strumenti con gli apparati macchinici (e i sistemi di macchine), che daranno vita alla grande industria con enorme ed esponenziale accrescimento della produttività e della produzione, indispensabile per realizzare uno dei due elementi cardine della possibile società comunista: un fluire così cospicuo di beni che sarà dato “a ciascuno secondo i suoi bisogni”, uscendo dalla scarsità (relativa) e dalla distribuzione dei beni soltanto in base al lavoro svolto (principio di distribuzione considerato ancora formalmente “borghese”, pur quando la produzione fosse stata già attuata con un modo sociale basato sulla proprietà collettiva dei mezzi produttivi).
Il passaggio dalla produzione mercantile semplice a quella capitalistica ha impiegato un tempo per Marx relativamente lungo, è stato un processo tormentoso durato forse un paio (o anche più) di secoli (non mi perito adesso in una esatta quantificazione, che nemmeno Marx fa nelle pagine indicate, e che non sarebbe del resto facile individuare poiché si tratta di un processo progressivo che non avviene con uno stacco netto). Una volta emerso stabilmente il predominante modo (sociale) di produrre basato sulla proprietà (privata) capitalistica, il processo si accelererebbe e diverrebbe, sempre secondo Marx, meno complicato e tortuoso: “con l’espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi, si sviluppano su scala sempre crescente la forza cooperativa del processo di lavoro, la consapevole applicazione tecnica della scienza, lo sfruttamento metodico della terra, la trasformazione
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dei mezzi di lavoro in mezzi di lavoro utilizzabili solo collettivamente, la economia di tutti i mezzi di produzione mediante il loro uso come mezzi di produzione del lavoro sociale, combinato, mentre tutti i popoli vengono via via intricati nella rete del mercato mondiale e così si sviluppa in misura sempre crescente il carattere internazionale del regime capitalistico” [ribadisco che si tratta di quel regime caratterizzato dalla forma privata della proprietà dei mezzi produttivi, che Marx pensava si sarebbe esteso, sostanzialmente con le stesse caratteristiche di quello inglese, a tutto il globo usando le merci quali pezzi di artiglieria (Manifesto del ’48), da cui il ben noto de te fabula narratur; affermazione marxiana che è stata presa dai marxologi ignoranti quale predizione dell’odierna globalizzazione del mercato, quando la merce è appunto semplice strumento (pezzo di artiglieria) di una data forma sociale del produrre tramite il rapporto cruciale tra proprietà capitalistica e lavoro salariato, con connessa estrazione del pluslavoro in forma di valore, ecc. ecc.].
La concorrenza tra capitalisti – seguito “naturale” di quella tra produttori mercantili semplici – avrebbe comportato la formazione del monopolio: “Il monopolio del capitale diventa un vincolo del modo di produzione, che è sbocciato insieme ad esso e sotto di esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati”. Prima di fare un breve commento su questo pezzo, riportiamo infine l’ultimo, quello decisivo per capire le previsioni di Marx: “La trasformazione della proprietà privata sminuzzata poggiante sul lavoro personale degli individui [produzione mercantile semplice; nota mia] in proprietà capitalistica è naturalmente un processo incomparabilmente più lungo, più duro e più difficile [corsivo mio] della trasformazione della proprietà capitalistica, che già poggia sulla conduzione sociale della produzione [corsivo e grassetto miei] in proprietà sociale. Là si trattava dell’espropriazione della massa della popolazione da parte di pochi usurpatori, qui si tratta dell’espropriazione di pochi usurpatori da parte della massa del popolo”.
Si constata dunque, senza ombra di dubbio, che Marx pensava ad una transizione dal capitalismo al comunismo – cioè dalla forma privata della proprietà dei mezzi produttivi (perché questo, e solo questo, è per Marx, il capitalismo) a quella sociale (prima socialista e poi comunista; dove il socialismo era considerato solo quale primo gradino del comunismo) – mediante un processo assai meno lungo, meno tormentoso, meno difficile, di quello che era stato necessario per passare dalla produzione mercantile semplice (proprietà individuale dei mezzi produttivi e lavoro personale per produrre merci) alla proprietà capitalistica (produzione tramite lavoro salariato da cui si estrae pluslavoro/plusvalore). Negli anni ’60 e ’70 del ‘900, di fronte all’ormai sempre più chiaro impantana-mento del “socialismo reale”, il socialismo fu pensato quale lunga fase di transizione dal capitalismo al comunismo, fase in cui permaneva la lotta di classe con esito non scontato della stessa; una tipica ipotesi ad hoc per evitare di ridiscutere tutto l’impianto marxiano, rivelatosi errato nelle sue previsioni (scientifiche). Il socialismo non poteva invece essere altro, nel pensiero di Marx e poi del marxismo, se non la prima fase del comunismo; in essa sarebbe già sussistita la proprietà collettiva (e il controllo sociale) dei mezzi di produzione, ma lo sviluppo delle forze produttive non avrebbe ancora consentito una distribuzione veramente comunista.
Insomma: il modo e i rapporti sociali di produzione (che sono per Marx caratterizzati da una storicamente specifica forma della proprietà dei mezzi di produzione) sarebbero già stati quelli della nuova società, e avrebbero già creato quella trasformazione dei mezzi produttivi in mezzi da usare collettivamente tramite la forma cooperativa del lavoro, avrebbe già dato impulso alla consapevole applicazione di scienza e tecnica, ecc. (vedi il passo prima citato), per cui non poteva non conseguirne, tramite un processo “incomparabilmente” meno lungo, meno duro e meno difficile, il passaggio al nuovo regime proprietario (collettivo). Tuttavia, la disgrazia del marxismo è stata di aver provocato una scissione netta tra: a) i “filosofi” che l’hanno ridotto ad umanesimo, a considerazioni sulla mera alienazione, sull’infelicità e lo smarrimento, sulla miseria morale, e via cianciando, indotti da questo “cattivo” capitalismo (tanto ammirato da Marx, ma guarda un po’), criticando il presunto economicismo da cui sarebbe stato affetto il pensiero marxiano; e b) gli economisti che non
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hanno visto altro se non la produzione con estrazione di plusvalore, centralizzazione dei capitali, tendenziale stagnazione (alcuni addirittura il crollo), ecc.
Leggere un autore significa certo, come in qualsiasi altra interpretazione di un pezzo del mondo “reale” che ci sta di fronte, fare una selezione in base ai propri “bisogni”. Tuttavia, la “realtà” del mondo ha da essere ipoteticamente costruita (e con ordine) al fine di muoversi in esso, poiché ogni azione (e perfino l’in-azione) implica movimento, successivi diversi posizionamenti dei corpi nel tempo e nello spazio. Se si legge un autore, invece, sono senz’altro possibili molte interpretazioni, ma non ci si può né inventare ciò che non ha detto né tralasciare brani decisivi del suo dire. Non si può interpretare il monopolio di cui parla Marx nei termini degli economisti (gli scienziati sociali più limitati e meschini che ci siano), scordandosi dei due elementi cruciali che sono la base sociale delle possibilità di transitare al comunismo. La prima condizione l’abbiamo già incontrata: uno sviluppo tale da consentire di “dare a ciascuno secondo i suoi (anche personali) bisogni”. La seconda è quella precisata nei brani del Capitolo VI inedito e nel Libro III de Il Capitale, già riportati tempo fa nel sito: la formazione del lavoratore (od operaio) collettivo (o combinato), cioè di un gruppo di lavoratori fra loro cooperanti a qualunque livello del processo di lavoro siano inseriti. Fra di loro si sarebbero potuti al massimo sviluppare i contrasti che sussistono normalmente in qualsiasi forma di cooperazione; non sarebbero invece più esplose al loro interno quelle contraddizioni (antagonistiche) che dipendono dalla proprietà (o non proprietà) dei mezzi produttivi.
Essi, fin quando fosse esistito il capitale (proprietà privata), sarebbero stati – tutti – lavoratori salariati e quindi “sfruttati” (produttori di plusvalore per i proprietari). Questa comune condizione avrebbe consentito il superamento dei loro “dissapori” interni (parte integrante di un lavoro in collettivo) e li avrebbe opposti drasticamente ai proprietari, divenuti sia monopolisti che meri finanzieri o proprietari di azioni delle varie spa, con godimento del plusvalore nella forma dei dividendi che sono quasi-rendite (quelle vere sono terriere). Sarebbe venuta meno quella funzione nella produzione che comunque Marx assegnava ai capitalisti (pur essenzialmente proprietari) nella fase concorrenziale; come si evince dal seguente passo (Glosse a Wagner): “io rappresento il capitalista come un funzionario necessario [corsivo e grassetto miei] della produzione capitalistica e dimostro ampiamente che egli non si limita a ‘prelevare’ o ‘rapinare’ [pensate ai cretini che hanno attribuito a Marx la frase di Proudhon: ‘la proprietà è un furto’; nota mia], ma al contrario impone la produzione del plusvalore, contribuisce cioè innanzitutto [corsivo mio] alla creazione di ciò che sarà prelevato”.
Anche Marx parla dunque di capitalisti in quanto funzionari, cioè portatori di funzioni. Solo che per lui la loro funzione – nel primo capitalismo, quello che nasce dalla concorrenza mercantile tra “liberi” (da vincoli servili) produttori semplici di merci, con espropriazione dei più e proprietà capitalistica di alcuni di loro – è di contribuire (innanzitutto, cioè prima della sottrazione) alla creazione di plusvalore; poi, appunto, essi lo sottraggono ai lavoratori salariati, rispettando l’equivalenza nello scambio di merci. Il prima e il poi non sono però temporali, cronologici, bensì solo logico-funzionali (questo è importante per comprendere il posto delle funzioni capitalistiche, anche quelle non viste da Marx; ad esempio quelle strategico-conflittuali che, anch’esse, sono logicamente precedenti alle altre nella mia costruzione teorica). Tuttavia, sempre seguendo il pensiero di Marx da vicino, il capitalista (proprietario) della prima fase (concorrenziale) svolge una funzione in definitiva positiva, almeno per quanto riguarda lo sviluppo delle forze produttive.
Quando si passa alla seconda fase, caratterizzata dall’espropriazione tra capitalisti e dalla formazione della proprietà centralizzata monopolistica, tale funzione positiva sparisce; l’intero processo produttivo (nel senso stretto del termine, cioè relativamente alla trasformazione di input in output) cade sotto il controllo del lavoratore od operaio ormai collettivo o combinato, ancora tuttavia salariato. A questo punto, il capitalista ha – sto sempre seguendo Marx – una semplice funzione di proprietà; e questa si concentra sul segno (l’azione o la quota “sociale”) che attribuisce il controllo dell’unità produttiva (Marx non ha il concetto di impresa), della cui attività il capitalista proprietario si disinteressa. Egli al massimo assume, per dirigerla, lavoratori salariati in grado di dare un efficiente
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contributo al prelievo di plusvalore dal lavoratore combinato, di cui fanno parte anche i dirigenti, che vivono quindi una palese contraddizione tra i due ruoli da essi ricoperti, poiché sono, contemporaneamente, “esattori” del pluslavoro/plusvalore e “fornitori” dello stesso (oltre, appunto, a svolgere quella funzione che Marx, nel passo citato delle Glosse a Wagner, assegnava ai capitalisti della prima epoca concorrenziale).
Non si capisce nulla della centralizzazione, e del monopolio di cui parla Marx nei passi sopra citati, se non si fa riferimento al lavoratore collettivo e alla posizione ormai sostanzialmente parassitaria occupata dal capitalista (proprietario di azioni e “tagliatore di cedole”). La centralizzazione non è fatto economico esattamente come il capitale non è cosa ma rapporto sociale. Chi parla di centralizzazione en économiste non riesce proprio a capire il processo mentale di Marx, la sua vera rivoluzione che ha aperto alla conoscenza scientifica, per dirla con Althusser, il Continente Storia. In definitiva, il monopolio – di cui Marx parla nel passo sopra citato del cap. XXIV de Il Capitale – non è nemmeno il tendenziale formarsi (secondo le tesi ultraimperialistiche di Kautsky, accettate nel marxismo ridotto a dottrina antiscientifica perché dogmatica) dell’unico trust mondiale.
Certo, per Marx la proprietà capitalistica si concentra in seguito alla lotta tra capitalisti, ponendo così il rapporto proprietario quale vincolo all’ulteriore sviluppo delle forze produttive. Tale concezione non è però nella sostanza economicistica (deterministica, questo si), poiché la centralizzazione non è il formarsi dell’impresa monopolistica (di cui parlerà l’economia più tardi), bensì l’estraneazione dei capitalisti (proprietari) dalla produzione in senso stretto, la loro trasformazione in classe di sostanziali rentier, di percettori di rendite (dividendi azionari, guadagni legati a tutti i possibili e immaginabili “giochi” finanziari: di borsa come di fondazione, fusione, inglobamento, divisione, scorporamento, ecc. di società i cui capitali sono suddivisi in quote). E, ancor più, il monopolio conduce alla formazione del lavoratore produttivo collettivo o combinato (“dall’ingegnere all’ultimo manovale”), l’effettiva base sociale di una trasformazione anticapitalistica, poiché ridiventerebbe “chiaro” – come lo poteva essere con le corvée di lavoro feudali o la quota di prodotto che il servo della gleba doveva dare al signore (o alla Chiesa) – lo sfruttamento dell’intero corpo lavorativo da parte di quasi-signori: i rentier, i finanzieri.
Questa è la centralizzazione (monopolistica) dei capitali di Marx; non la dimensione d’impresa o la quota di capitale azionario controllata o la quota di mercato occupata, ecc. Il vincolo posto dal monopolio allo sviluppo produttivo dipende da un mutamento del rapporto sociale tra capitalista/proprietario (estraneo alla produzione e mero “esattore” del plusvalore nella forma della quasi-rendita) e l’intero corpo lavorativo produttivo (e cooperante). I rentier si combattono tra loro sul piano meramente finanziario, non con lo spirito competitivo dei capitalisti della prima fase, interessati alla (organizzazione della) produzione, da cui estrarre il massimo plusvalore possibile nella forma del profitto (non in quella della quasi-rendita). Nel contempo, il corpo lavorativo collettivo e cooperante – cui viene succhiato continuamente plusvalore per i crescenti bisogni dei rentier (per inciso: essi possono conservare il potere, in questa situazione di “chiaro” sfruttamento, solo mediante la coercizione esercitata dal loro Stato, con i suoi “distaccamenti speciali di uomini in armi”, per il cui mantenimento occorrono risorse crescenti) – non ha la proprietà dei mezzi necessari ad incrementare lo sviluppo produttivo. Quest’ultimo è reso, si, possibile dalla socializzazione delle forze produttive, conseguente all’uso collettivo dei mezzi di produzione da parte dei produttori associati e cooperanti; ma non è realizzabile poiché la proprietà (controllo) di tali mezzi è rimasta di pertinenza dei capitalisti monopolisti (e finanziari), estranei alla produzione.
E’ chiaro il concetto? Si comprende che la centralizzazione è quella che ho cercato di illustrare brevemente quale processo eminentemente sociale? Si tratta di una concezione grandiosa, per nulla affatto micragnosa e meschina come quella che nutrono gli economisti, questi falsi scienziati sociali, autentici ideologi che confondono la conoscenza specialistica con il sapere scientifico intorno alla società. Non sempre essi sono pagati per raccontare consapevoli menzogne (anzi!), ma sono intralciati dal loro ristretto specialismo: utile quando è utile la tecnica specialistica, spesso disastroso quando si tratta di allargare la propria visione. Gli economisti, di fronte ad uno scienziato sociale,
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sono come il geometra rispetto all’architetto; per certe costruzioni, il geometra è perfino più utile e operoso dell’architetto, ma la visione di quest’ultimo è più larga e abbraccia meglio “l’insieme”. L’apertura di visuale prodotta da Marx è irrinunciabile; egli non è per nulla un economicista. Il marxismo è stato ridotto ad economicismo da economisti (spesso improvvisati e abborracciati) che si sono creduti marxisti, mentre erano soltanto dei tecnici in possesso di un sapere a volte anche alto ma meramente specialistico. Diamo a Marx quello che è di Marx; non era un economicista poiché non era un economista (la critica dell’economia politica non ha nulla a che vedere con una banalissima “economia critica”!) Nemmeno era un filosofo, per carità; non cadiamo dalla padella (economicismo) nella brace (le concezioni dei filosofi della eternità, delle essenze, del genere umano, ecc.). Marx pensava alle differenti formazioni sociali. Può al massimo, e non in tutte le sue elaborazioni, essere accusato di un certo determinismo, ma sociale; mai invece di mero economicismo.
Solo che la sua grande visione – che mi ha affascinato per decenni e su cui per decenni mi sono affannato perché, al suo confronto, provavo disattenzione e noia per quella disciplina entro i cui ristretti schemini mi si voleva “carcerare” (con l’acciughina della “cattedra”, quasi dovessi trasformarmi nel “cane di Pavlov”, pronto nei riflessi ogni volta che i “grandi capi” del ramo avessero suonato la campanella) – non ha retto al tempo. Chi mi ha letto bene sa a che cosa mi riferisco, e non mi dilungo adesso ancora una volta sulla necessità di porre quale nuovo paradigma centrale della teoria il conflitto strategico e la sua specifica razionalità. Ricordo solo che ho piena coscienza dei limiti di tale paradigma: è semplicemente un primo passo, un passo provvisorio, giacché non consente ancora di pensare l’“ossigeno” (una nuova formazione sociale), lasciandoci invece invischiati nel “flogisto” (il capitalismo in generale, con le sue forme mercantili e imprenditoriali). Tuttavia, per il momento, tale paradigma è alcuni anni luce avanti rispetto a quello ancora in uso presso piccole schiere di zombi. Ci tornerò sopra altre volte ancora. Su questo punto, in ogni caso, si apre la caccia ad un nuovo concetto di “ossigeno”.
3. Procediamo. La scuola althusseriana ebbe una conoscenza profonda di Marx; Leggere il Capitale (1965) è forse l’unica opera di analisi del pensiero marxiano che valga ancora la pena di leggere. Althusser non rivolse mai veramente l’accusa di economicismo a Marx; al marxismo invece si. Come già detto, alcuni (fra cui il mio Maestro francese Bettelheim) arrivarono semmai a ritenere la Prefazione del ’59 un testo non marxista, proprio perché lo considerarono affetto da economicismo; critica a mio avviso non proprio esatta, frutto di una lettura forse un po’ affrettata. Anche per quel che concerne il preteso determinismo (e teleologismo) del pensatore e rivoluzionario di Treviri, la scuola in oggetto rilevò l’aspetto duplice e non sempre coerente della sua teoria a tal proposito. Soprattutto, però, si accentuò il suo carattere di lotta in campo teorico (“lotta di classe” nell’elaborazione di un pensiero che intendeva “riprodurre il reale”). Indubbiamente, l’althusserismo condusse un radicale attacco – ma contro il marxismo, non contro Marx (anzi) – alla teoria secondo cui lo sviluppo delle forze produttive, giunto ad un determinato livello, avrebbe incontrato il suo limite (superiore) nel vecchio assetto dei rapporti sociali (di produzione): questo scontro tra livello di sviluppo e struttura dei rapporti sarebbe quindi sfociato in un periodo di rivoluzione sociale per trasformare quest’ultima.
I marxologi accademici hanno falsato – alcuni però scientemente e con intento di aperto ideologismo favorevole alla preminenza delle classi dominanti capitalistiche – il dibattito tra primato delle forze produttive e primato dei rapporti di produzione, riducendolo ad una pura questione di “lana caprina”, avulsa da ogni specifico contesto storico e politico. Le prime sistematiche critiche alla “nefasta teoria dello sviluppo delle forze produttive” (era sottinteso il seguito: sviluppo che avrebbe provocato la quasi automatica trasformazione dei rapporti di produzione, cioè della base economica della società con conseguente sconvolgimento delle sovrastrutture politiche e ideologiche) furono rivolte dal partito comunista cinese (influenzato dal predominante pensiero di Mao) contro i sovietici e la stragrande maggioranza dei partiti comunisti, soprattutto a partire dal duro scambio di lettere avvenuto nel 1963 tra i Comitati Centrali del PCC e del PCUS. Dopo la rottura verificatasi nel pri-
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mo con la rivoluzione culturale proletaria (1966-69) – tra la “linea nera” di Liu-sciao-chi e quella “rossa” di Mao, con il conseguente invito di quest’ultimo a “bombardare il quartiere generale”, cioè la direzione del partito ancora controllata dai suoi oppositori (che consideravano l’unità dell’organizzazione, cioè la cristallizzazione del potere di nuovi gruppi dominanti, quale dogma intoccabile) – si accentuò la polemica contro questa “nefasta teoria” (revisionista), il che dette impulso al “maoismo europeo” e alla sua massima espressione teorica che fu, in effetti, l’althusserismo (ha scarsa importanza che il caposcuola abbia tanto esitato ad abbandonare il partito comunista francese).
Chi non capisce il contesto politico-storico, in cui si inserì la polemica tra primato delle forze produttive o invece dei rapporti di produzione, non ha alcun diritto di mettere becco sulla questione. Di pensatori, avulsi dalla lotta politica, tutti dediti alla conoscenza delle Verità Eterne, non abbiamo proprio bisogno. Questi pensatori possono dissertare squisitamente e con grande erudizione su tutto, ma per coloro, che hanno partecipato a quel dibattito con precisa conoscenza del suo contesto, essi chiacchierano a vuoto. Si pensi che, ancora recentemente, la paludata casa editrice Laterza – covo di tutti gli accademici di cui sopra – ha pubblicato un libro del marxologo Carandini, in cui questi sostiene (come del resto fece negli anni ’70 dopo la discussione svoltasi sulle pagine di Critica marxista nel 1972-73) che il capitalismo non deve essere per il momento nemmeno combattuto perché, evidentemente, non ha ancora sviluppato tutte le forze produttive che ha in seno. Ecco a che cosa è sempre servita la “nefasta teoria delle forze produttive”.
In quel periodo, nettamente antecedente il crollo del “socialismo reale” – in cui però il maoismo, e la corrente teorica althusseriana in “occidente”, avevano già preso atto della netta impasse in cui si trovava la pretesa “costruzione del socialismo” – si riteneva ancora possibile la lotta di un rinnovato leninismo (di cui il maoismo sarebbe stato la “riedizione” aggiornata) contro il neorevisionismo: sovietico e, sul piano nazionale, togliattiano. In Italia, in particolare, tale revisionismo – intriso di “cretinismo parlamentare” e di “feticismo” della democrazia “borghese” – si basava sullo storicismo e umanesimo, cui aveva dato alimento anche il rivoluzionario Gramsci, ma che era stato da Togliatti piegato in senso evoluzionistico, gradualistico, riformista e opportunista. Tuttavia, anche sul piano internazionale, la situazione non era molto diversa; anzi perfino peggiore. Gli anni ’50 e parte di quelli ’60 furono vissuti nell’attesa di quale struttura sociale avrebbe prevalso nella gara tra “socialismo” e capitalismo. Ricordo bene come tutti noi ci pascessimo delle (esaltanti, ma rivelatesi cervellotiche e bugiarde) statistiche sugli impetuosi sviluppi produttivi del socialismo: nel giro di vent’anni l’Urss avrebbe superato gli Usa come Pil, la Cina avrebbe superato l’Inghilterra, il campo socialista avrebbe contribuito per più del 50% alla produzione mondiale.
A quel punto, la costruzione del socialismo (e il passaggio al gradino superiore, il comunismo) sarebbe corsa a tutta velocità su una autostrada a senso unico. Non parliamo dell’entusiasmo sollevato dal lancio del primo sputnik (il 4 ottobre 1957, con l’ebbro editoriale di Mario Alicata su L’Unità: “La luna rossa fa bip bip”) e, poi (il 3 novembre dello stesso anno), la messa in orbita della cagnetta Laika (prendetemi pure per folle o scemo, ma oggi provo più pena pensando a quella disgraziata bestiola, “inutile sacrificio”, che non al socialismo crollato). Chi non ha vissuto quel periodo, non può capire come quegli eventi rappresentassero il risarcimento di quanto accaduto un anno prima, nell’ottobre 1956, in Ungheria; come l’opportunismo attendista delle direzioni piciiste (in primo luogo l’italiana) cercasse di inebriare i militanti con l’esaltazione dello sviluppo delle forze produttive, che avrebbe “automaticamente” condotto alla rottura del paralizzante involucro rappresentato dai rapporti di produzione capitalistici. Sempre in quegli anni, ricordo che uscì un volumetto di Spinella, Automazione (non ancora quella di tipo informatico, ovviamente), in cui si sosteneva che tale trasformazione dei processi di lavoro non poteva non favorire la vittoria del socialismo sul capitalismo, poiché il primo, non basandosi sul profitto, avrebbe facilmente automatizzato la produzione con un fluire di beni tale da “seppellire” il capitalismo, incapace – per la sua sete di profitti (che sono pluslavoro degli operai per cui, una volta sostituiti integralmente questi ultimi con sistemi automatizzati, la fonte del guadagno capitalistico si sarebbe inaridita) – di adeguarsi alla trasformazione (pensate dove può portare un marxismo così scolastico!).
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Quando diventò pubblica e accesa la polemica tra cinesi e sovietici, con la pubblicazione dello scambio di lettere tra i Comitati Centrali dei due partiti – e con gli scritti del PCC di dura critica a Togliatti (Le divergenze tra il compagno Togliatti e noi e, ancora più circostanziato, il successivo testo: Ancora sulle divergenze tra il compagno Togliatti e noi) – sostenni un duro scontro con l’intero “Comitato federale” del PCI di Treviso in cui, fra l’altro, affermai che, invece di motivare il sostegno al capitalismo industriale italiano con la tesi secondo cui lo sviluppo delle forze produttive alla fine imporrebbe, “oggettivamente” (e quindi pacificamente), il mutamento dei rapporti sociali, sarebbe stato meglio ricordare come il grande sviluppo delle forze produttive in Urss fosse stato susseguente alla trasformazione rivoluzionaria dei rapporti di produzione. In me era dunque pronto un terreno favorevole all’accoglimento delle tesi althusseriane (e di Bettelheim, presso cui studiai nel 1970-71) circa il primato dei rapporti (sociali) di produzione sulle forze produttive.
Qualcuno – evidentemente incapace di tener conto dei contesti storico-politici in cui si scatenano le lotte teoriche – mi ha criticato perché avrei “tradito” la battaglia di allora, schierandomi oggi a favore della “nefasta teoria delle forze produttive”. Si tratta di una delle più scervellate accuse che mi sia sentito rivolgere in questi ultimi anni; e per più di un motivo. Intanto, appunto come chiarito in quanto precede, la polemica contro le forze produttive era la polemica contro l’evoluzionismo riformistico dei fu comunisti (eredi, ormai “traditori”, della Rivoluzione d’ottobre), trasformatisi in piciisti intrisi di opportunismo. La polemica durissima contro tale evoluzionismo, che aveva preso la forma dell’appoggio allo sviluppo produttivo del capitalismo nostrano, era vista come un ritorno (di fedeltà) alla suddetta rivoluzione bolscevica e al leninismo. Essere per il primato dei rapporti sulle forze produttive – con però una serie di altri corollari, tutti assai importanti: critica della pianificazione centralizzata, critica del “socialismo di mercato”, critica della pretesa preminenza del “pubblico” sul “privato”, coppia ideologica atta a nascondere il predominio della borghesia anche sul piano dello Stato, di cui andava smascherato il carattere di classe, che il revisionismo kruscioviano e togliattiano invece celava – significava essere per il neoleninismo (e maoismo) contro il neorevisionismo.
Ora, vorrei proprio vedere chi è quell’ignorante capace di sostenere che Lenin era contrario allo sviluppo delle forze produttive, era un teorico ante litteram delle demenziali tesi sulla decrescita! Non lo era Lenin; e non lo era nemmeno Althusser, non lo era nemmeno Bettelheim, non lo era nessun althusseriano (tanto meno i maoisti cinesi). Certa gente torni per favore sui “banchi di scuola” e cominci con il reimpadronirsi dei metodi (e della volontà) di studio. Soprattutto, non “sputi” direttamente le parole dalla bocca; le faccia passare prima, almeno per un secondo, dal cervello al fine di effettuare un “controllo di qualità”.
Essere contro la teoria delle forze produttive significava (e significa) criticare senza mezzi termini ogni credenza – diffusa spesso da chi si rende ben conto della mistificazione ideologica che propala – di un’automatica, oggettiva, indolore, trasformazione dei rapporti sociali, attuata con il minimo sforzo, pacificamente, perché i vecchi rapporti si oppongono allo sviluppo in questione, facendo marcire e stagnare le forze produttive. Simili tesi sono un inganno dei dominanti (dei loro ideologi) e degli opportunisti che, pur facendo credere di stare con i dominati, si sono trasformati in sotterranei (e ben pagati) sostenitori di quei ceti sociali contro cui fingono di combattere, a volte perfino con radicalità “estrema”, facendo piazzate, “erigendo barricate”. Ma nessun comunista critico – e gli althusseriani, in quanto “maoisti” europei, hanno voluto essere comunisti critici, capaci di riafferrare lo spirito anticapitalistico più genuino del pensiero di Marx e di Lenin – si è mai sognato di affermare che non si dovesse più appoggiare lo sviluppo produttivo, che si trattasse invece di predicare parsimonia e frugalità, di battersi per la decrescita, per le “sismondiane” (affette da “romanticismo economico”) piccole produzioni “vicino casa”.
No, si era anche allora per lo sviluppo delle forze produttive, ma non si raccontava la bugia che quest’ultimo avrebbe prodotto, di per sé, per sua virtù intrinseca, un rivoluzionamento della società, dei suoi rapporti di produzione (e di quelli politici e ideologici). Nemmeno si sosteneva che sarebbe bastato rivoluzionare il vecchio involucro dei rapporti capitalistici per ridare incremento allo
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sviluppo. Ci rendevamo ben conto, noi althusseriani (e molto orgogliosi di esserlo dopo decenni di predominio di un asfittico umanesimo di stampo “cattocomunista”), che il capitalismo si sviluppava più rapidamente del presunto socialismo reale, che “il capitale non era barriera a se stesso” (come aveva recitato lo stesso Marx, seguito pedissequamente in questo dai nostri piciisti, opportunisti togliattiani, ma anche dalle correnti eretiche di stampo chiesastico quali bordighisti e trotzkisti). La rivoluzione, implicante trasformazione dei rapporti sociali (quelli delle varie sfere della società), godeva, nel pensiero althusseriano, di una relativa autonomia rispetto allo sviluppo (o meno) delle forze produttive. Rivoluzionamento dei rapporti e sviluppo delle forze produttive, insomma, non erano tra loro uniti da relazioni causali deterministiche, né a senso unico (dallo sviluppo alla trasformazione dei rapporti) né a doppio senso (pur sempre un meccanicismo, per quanto “incrociato”).
Nessuno si sarebbe però mai sognato di trasformare la critica a tale meccanicismo (e determinismo) nell’affermazione, altrettanto meccanicistica e deterministica, di un necessario blocco dello sviluppo, di un suo rallentamento “sostenibile”, magari di un arretramento, o altro. Il problema dello sviluppo o meno era a parte, era tutta un’altra faccenda; non dipendeva in nessun caso, e nemmeno per un grammo, dalla critica antideterministica circa la relazione tra forze produttive e rapporti sociali (di produzione). E’ chiaro per i sordi (mentalmente) odierni? Chi non l’ha compreso ancora, è in definitiva – pur prendendo una posizione opposta, antitetico -polare, rispetto ai “revisionisti” di un tempo – un seguace della “nefasta teoria delle forze produttive”. Egli attribuisce segno negativo invece che positivo allo sviluppo, ed è allora un “fottuto forzaproduttivista” come gli opportunisti di quel tempo; e, come loro, è un sostanziale ideologo dei dominanti, che distoglie l’attenzione dal problema centrale del rivoluzionamento dei rapporti sociali. E’ insomma il reale erede dei piciisti (e togliattiani) di allora; un erede “rovesciato”, “invertito”, per certi versi ancor peggiore, più negativo per le sorti di una reale lotta che coinvolga – solo in prospettiva, però, questo mi sembra oggi assai evidente – le maggioranze popolari, che vogliono stare bene, stare sempre meglio.
Lasciamo perdere dunque questo disgustoso miscuglio di “cattolicheggianti”, di “comunisti” della miseria e della vita spirituale, ascetica, di anticonsumisti socialmente tanto arretrati quanto gli accesi consumisti, di adoratori di un (per fortuna impossibile) nuovo medioevo, del tutto improponibile se non nelle spudorate menzogne di chi vive magnificamente in casali di campagna perfettamente attrezzati, con grande spreco e consumo di energia, dotati di ogni confort (per se stessi, per poter predicare meglio la vita grama agli altri; e per trovare sempre compiacenti editori pronti a pubblicare tutte le loro demenzialità, utili a rincoglionire i “poveri di spirito”). Questi sono nostri acerrimi nemici; peggiori di ogni altro, perché ipocriti, falsi, bugiardi, menti perverse al servizio del capitalismo più arretrato. Ad esempio, in Italia (ed Europa) quello della GFeID, che vuol indebolire il paese per renderlo ancor più succube rispetto al complesso politico-finanziario del paese predominante, il quale è ben lieto di lasciare al nostro quei settori industriali che non sono in grado di entrare in competizione con i suoi di punta, con i settori essenziali per la sua preminenza mondiale (in particolare quella bellica); di modo che l’Italia possa diventare un’“oasi” di relax (e buona cucina), dove i “padroni” vengono a ritemprarsi dopo le fatiche della supremazia (“il riposo del guerriero”).
4. In seguito all’autentica implosione del “socialismo reale” (1989-91) – per quanto largamente prevista dal maoismo e dall’althusserismo, pur se non nelle sue modalità e tempi effettivi – si è dimostrato impossibile pensare ad una concreta ripresa della polemica neoleninista contro i neorevisionisti; è anzi apparsa chiara la falsità ideologica di un leninismo antirevisionista. Il vero revisionista fu Lenin, mentre Kautsky fu l’effettivo ortodosso che, per ciò stesso, divenne l’alfiere dell’opportunismo socialdemocratico, di quella corrente politica chiamata, con disprezzo, “sinistra” dai sinceri comunisti; una sinistra che è sempre stata magazzino di tutte le nequizie e fonte dei cedimenti, delle peggiori scelte politiche compiute nel ‘900 a danno dei dominati. D’altronde, la politica di sinistra dipendeva dal fatto ormai incontestabile della non rivoluzionarietà di quella che si continuava, con pigro adattamento alle tesi del secolo XIX, a definire “la Classe”, il soggetto della trasformazione del capitalismo in comunismo; mentre era invece un ceto popolare, in suoi larghi strati
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meno abbiente degli altri, ma esclusivamente interessato (e con ragione) a migliorare le sue condizioni di vita, restando completamente entro i meccanismi della riproduzione dei rapporti capitalistici.
Del resto, possiamo prendere in considerazione tutti i tentativi, sviluppatisi dopo il 1989-91, di rifondare un sedicente comunismo. Essi sono stati portati avanti da spezzoni dei partiti piciisti, opportunisti, senza alcuna radicale critica di quanto tali partiti hanno fatto dal dopoguerra (1945) in poi; anzi, bisognerebbe riandare ad ancor prima, agli svarioni dei fronti antifascisti formati con gli opportunisti e filocapitalisti socialdemocratici, conservatori e reazionari, nemmeno rivoluzionari dentro il capitale. E anche nei tempi più recenti, gli ultimi conati – non so se definirli comici o patetici – dei cultori della “falce e martello” provengono dalle fila dei piciisti, di quelli ancora seguaci dell’opportunismo togliattiano o, peggio ancora, berlingueriano. Per non parlare dei soliti trotzkisti e bordighisti, che sono solo dei provocatori; o, al massimo, personaggi delusi dall’“Azione cattolica”, che si dimostra troppo poco forsennatamente fondamentalista per le teste bacate di alcuni suoi giovani adepti del tutto disadattati e asociali.
In ogni caso, il clima che aveva avvolto il tentativo di ripensare rivoluzionariamente sia la prassi comunista (tentativo compiuto dal maoismo) sia la teoria marxista (obiettivo della scuola althusseriana), si è dissolto con il crollo del “socialismo”. Il mutamento storico è impressionante. Siamo tornati ad un’epoca ancora per l’essenziale monocentrica (a predominio statunitense), con le prime spinte in direzione di un policentrismo che, se si affermerà come personalmente credo e ipotizzo, non potrà farlo prima di 20-30 anni. Riprendere, in una situazione del genere, la vecchia discussione sul primato dello sviluppo delle forze produttive o invece del rivoluzionamento dei rapporti sociali (di produzione), sarebbe come organizzare un festival di barzellettieri, dove vincerebbe il portatore dell’umorismo più retro.
La situazione, da questo punto di vista, è molto più semplice. Innanzitutto, partiamo dalla constatazione che noi agiamo all’interno di società del capitalismo “occidentale” (dei funzionari del capitale) che sono quelle ancor oggi più avanzate, quelle che godono di un più alto tenore di vita medio. Sappiamo (da Trilussa) che cos’è una media statistica ma, pur con tutta l’ironia possibile, non dobbiamo nasconderci che nei nostri paesi si è verificato un netto innalzamento di tale tenore di vita per quanto concerne tutti gli strati sociali, pur nell’ambito di un accrescimento della differenza di reddito e di ricchezza tra quelli più alti e quelli più bassi. Oggi, ci sono difficoltà crescenti, ma non confondiamole con una situazione di miseria in aumento, perché saremmo veramente incapaci di muovere i nostri cervelli entro gli spazi delimitati dalle coordinate reali del nostro mondo. Quanto alle contraddizioni tra capitalismo avanzato e popoli di società più arretrate, la situazione non è più quella delle vecchie teorie dell’economia-mondo o della dipendenza, ecc. tramontate da decenni (anche se magari possono esistere tuttora stanchi residui di quelle visioni un tempo vivaci).
I conflitti in questione sono oggi in prevalenza interreligiosi, interetnici, ecc.; inoltre sono tanto più acuti quanto più si sviluppano in zone “calde”, dove va acuendosi la frizione tra Usa e nuove potenze in crescita, quelle che preannunciano la possibilità di una nuova fase policentrica. Le lotte dei “diseredati” – che in realtà vedono enuclearsi al loro interno nuove classi dominanti pur ancora gelatinose; e ciò sia che si guardi all’Iran o alla Palestina o al Libano o alle Repubbliche centroasiatiche, ecc. ecc. – avranno reale e stabile successo solo nella misura in cui si svilupperà tumultuosamente il conflitto policentrico tra potenze; altrimenti si crede veramente alle Fate (e si farà la fine dell’uomo che sognò le Fate nella bellissima poesia di Po-chu-i). Io non sogno le Fate e mi interesso di ciò che avviene in questo nostro mondo sviluppato, i cui conflitti interni tra dominanti saranno quelli che decideranno non solo delle nuove supremazie mondiali, ma pure dei nuovi possibili movimenti che eventualmente si irrobustissero nell’ambito degli strati dominati (o non dominanti).
Si ergono ad est nuove formazioni particolari (paesi) in quanto potenziali potenze, che hanno strutture “di base” conformate dall’impresa e dal mercato; istituzioni comuni alle altre società capitalistiche (dei funzionari del capitale) pur essendo inserite in società di forma capitalistica piuttosto incerta (ricordo ancora che quest’ultima è il nuovo “flogisto”). Nell’area del capitalismo più tradi-
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zionale (“occidentale”), quello a maggior ricchezza media delle sue formazioni particolari, sussiste al contrario un’ancora non contestata supremazia statunitense. Tali formazioni (paesi) non sono per nulla autonome dalla politica monocentrica della potenza “imperiale”. Nello stesso tempo, queste formazioni particolari dei funzionari del capitale sono in affanno, pur avendo già conseguito un notevole grado di accumulazione di ricchezza (non sto parlando di capitale, che è cosa ben diversa essendo uno specifico rapporto sociale, bensì semplicemente di ricchezza).
Quest’ultima non è stata esclusivamente realizzata dai capitalisti-strateghi (così diversi dai capitalisti-proprietari della concezione marxiana, che sarebbero dovuti diventare meri “tagliatori di cedole”), bensì anche, pur se in misura più modesta, dai (non) dominanti; in specie dal cosiddetto ceto medio, “luogo” in cui si ammassano strati e segmenti sociali, da cui probabilmente emergeranno – in seguito a sommovimenti creati dagli scontri interdominanti in una nuova fase policentrica (“imperialistica”) – i nuovi conflitti “di classe”, i nuovi antagonismi di un’epoca in cui tutto sarà veramente mutato: non esisteranno nemmeno più le vestigia di borghesia e classe operaia (o proletariato, in definitiva composto di una grande maggioranza di contadini poveri alleati a distaccamenti minoritari di operai), e saranno nella sostanza esauriti i vecchi “ismi” (liberalesimo, marxismo, ecc.).
In attesa di quest’epoca – un’attesa “non messianica”, né garantita da ipotesi che non è sicuro colgano effettivamente nel segno – dobbiamo puntare prevalentemente all’acuirsi delle contraddizioni policentriche; e dobbiamo batterci per la maggior autonomia possibile della nostra area (europea, ma con particolare riferimento al paese al cui interno operiamo) nei confronti della nation prédominante (Usa) del capitalismo “occidentale” (la formazione sociale dei funzionari del capitale). Non c’è alcuna autonomia possibile se non accresciamo anche noi, nei limiti delle nostre capacità, le potenzialità delle nostre formazioni particolari, e dell’Italia per quanto ci compete. In questa fase storica va detto senza mezzi termini che chiunque straparli di lotta per il comunismo, della “lotta di classe” antagonista, ecc. sta imbrogliando le carte; in realtà, tiene solo conto che, in tutte le società sviluppate, esiste un 10% circa (e, in certi periodi di maggiori difficoltà e stagnazione come l’attuale, anche qualcosa in più) di disadattati anarcoidi e tendenzialmente violenti: l’equivalente, nelle nostre ricche società, del vecchio sottoproletariato ottocentesco. Ci sono perciò gruppetti di politicanti e intellettuali che vi “inzuppano il pane”, fanno agitazione, creano disordine e poi o ottengono qualche ben remunerato posticino in Parlamento e nel sottogoverno o si fanno finanziare e assegnare qualche buon posto “al caldo” impegnandosi, in contropartita, a tenere sotto controllo i disordini che nel contempo fomentano.
E’ evidente che siamo in presenza di ceti politico-intellettuali particolarmente infidi e arruffoni, che andrebbero combattuti senza sosta e senza pietà per la loro mala fede e i danni di sgretolamento sociale che provocano; solo che nessuno degli schieramenti che governano i nostri paesi se ne fa carico (salvo che in polemiche parolaie), giacché essi sono utili a creare quel “caos necessario” a preoccupare la “ggente”, a renderla più malleabile alla subordinazione al paese predominante. E’ un gioco condotto da ambigui figuri, gioco che favorisce di fatto (o anche consapevolmente, dietro lauti pagamenti) – e sia che governi la destra o invece la sinistra – il potere dei settori non autonomi del capitalismo “occidentale” (europeo e, in modo del tutto particolare, italiano, essendo il nostro paese il più arretrato e sfatto tra i paesi avanzati), bloccando l’ascesa di forze “di trasformazione” in grado di battersi per l’indipendenza dagli Usa.
Dico con la massima radicalità che tali forze – ancora inesistenti, sia chiaro, non però del tutto assenti – potrebbero ben essere capaci di innescare trasformazioni sia dentro che contro il capitale; in questo momento, esse sarebbero comunque tutte favorevoli all’autonomia del nostro paese, mentre quelli della “lotta di classe”, del conflitto capitale/lavoro, della “falce e martello”, della ricostituzione di partitini “comunisti” (piciisti, eredi dell’opportunismo togliattiano e berlingueriano), malgrado la loro lotta antimperialista rozza e priva (volutamente?) di abilità tattiche, sono fonte di disgregazione, indebolendo la nostra formazione particolare. E’ ovvio che la nostra dipendenza dagli Stati Uniti viene così rinsaldata, pur con la finzione della lotta contro “l’imperialismo”; del resto, già questa menzognera tesi, secondo cui tutti i paesi capitalistici sono egualmente imperialisti –
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esattamente come la tesi opposta (antitetico-polare) di un Impero acefalo, senza centro da cui promanino precise decisioni – dimostra con quali imbroglioni si ha a che fare.
Stiamo però attenti, perché anche “a destra” ci sono gruppetti simmetrici di disadattati sobillati da altri imbonitori, che ripristinano torbidi simboli e ideologie del passato per creare pur sempre lo sfilacciamento e l’indebolimento del paese, processi favorevoli al subdominio della ben nota nostrana GFeID (grande finanza e industria delle passate ondate della rivoluzione industriale), cioè della “quinta colonna” del predominio statunitense. Tutta questa melma politico-ideologica, di “sinistra” come di “destra”, ciancia spesso di decrescita, di ritorno a buone tradizioni “antique”, di alta spiritualità contro la volgare materialità del benessere conseguito negli ultimi decenni; e veicola altre ideologie puramente reazionarie che, nel mentre affermano (ipocritamente, per ingannare i deboli di mente) di volersi così opporre alla “materialistica” società americana, fanno il possibile per danneggiare le nostre potenzialità onde meglio consegnarci indifesi alla supremazia dei “materialisti”, ben disposti a finanziare lautamente coloro che propagandano tutto ciò che sa di arretratezza; essi – i Soros, i Bill Gates, gli Al Gore e “compagnia cantando” – ridono sotto i baffi per la soddisfazione di essere stati così “furbi”, mentre si tratta invece della facile corruzione di gentucola che si vende per assai meno di “trenta denari”.
5. In definitiva, sarebbe oggi sfoggio di pura superfluità riprendere il dibattito intorno alla priorità dello sviluppo delle forze produttive o del rivoluzionamento dei rapporti di produzione con il fine, ormai tramontato da un pezzo, della transizione al socialismo e comunismo. Questa prospettiva è inesistente al 100%; e chi fa finta di non capirlo è quel losco figuro, di cui abbiamo già detto ampiamente sopra. Data la situazione brevemente delineata – sia in merito alla supposta lotta antimperialista condotta da “masse” guidate, in certi paesi ad ancora basso grado di sviluppo, da gruppi dominanti che propugnano ideologie religiose o etniche o anche nazionali (a volte di nazionalità assai ristrette e collocate in spazi minimali della formazione sociale globale): sia per quanto concerne il conflitto meramente redistributivo tra vari gruppi sociali nei paesi a “capitalismo” avanzato e in quelli in crescita ad est – deve essere completamente rivista la strategia e la tattica di eventuali nuove organizzazioni che riuscissero a crescere, opponendosi alla destra e alla sinistra attuali nei nostri paesi “occidentali”.
Non esiste affatto il legame (tanto meno quello puerilmente indicato come “dialettico”) tra riforme e rivoluzione, retaggio di un’epoca in cui si credeva al “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. Siamo in una fase storica di prevalente monocentrismo (statunitense) in progressivo, e lento, spostamento verso una situazione di policentrismo. Nel mentre si sta verificando questo percettibile, ma non lineare e sicuro, movimento secondo le direttrici ipotizzate, la formazione globale si va differenziando in tante particolari (in lotta fra loro), tutte caratterizzate dagli elementi comuni e generali del mercato e dell’impresa, ma con diversità empiricamente molto evidenti e manifeste, e tuttavia di difficile inquadramento concettuale. Inoltre, all’interno delle formazioni particolari (ancora paesi o anche nazioni) dei funzionari del capitale, si sta gonfiando un cumulo di strati (in verticale) e di segmenti (in orizzontale), che vengono ammucchiati nel concetto-ripostiglio di ceti medi ma in cui si stanno già producendo alcuni appena iniziali “stiramenti” in grado di accentuare le divaricazioni interne; da tali processi potrebbero nascere nuove più acute contraddizioni, al momento però ancora confuse, pasticciate, in caotico “ribollimento”.
Le linee politiche generali sono, innanzitutto, quelle dell’aiuto da fornire all’affermarsi del policentrismo. Poiché ci troviamo in un paese sottoposto al potere di subdominanti, che agiscono – per i loro stessi interessi – quale longa manus del complesso finanziario e politico dei predominanti statunitensi, è necessario promuovere una strategia politica di medio periodo che sviluppi i “nostri” settori di punta e tagli le unghie alla più volte nominata GFeID. Nessuna decrescita, nessuna produzione nell’orto “vicino casa”. Grande sviluppo, invece, dell’industria delle ultime ondate innovative, e delle ulteriori che già si preannunciano, con forte impulso alla ricerca scientifico-tecnica d’avanguardia. E’ indispensabile stabilire contatti internazionali con tutti coloro che intendano muover-
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si, anche in altre formazioni particolari, con i medesimi intendimenti. I legami – economici, politici, ideologici – con le potenze in crescita ad est vanno incrementati, ma non per cercare una nuova servitù; semplicemente perché, nel medio periodo, sono convergenti gli interessi all’affermazione del policentrismo. Pronti sempre a tutti i cambi di alleanza che si possano poi rendere tatticamente necessari.
All’interno del nostro paese – formazione particolare di quell’area occupata dalla società dei funzionari del capitale; un paese però particolarmente indebolito dalla presenza (meno marginale che altrove) di rigurgiti della vecchia epoca ormai trapassata – è necessario condurre una politica mirante a raggruppare gli strati inferiori del lavoro dipendente (con aumento delle retribuzioni) e del lavoro autonomo (con specifiche detassazioni), onde favorire la formazione di una “base di massa” (e “cintura protettiva”) delle forze che possano un domani attuare infine una politica di effettiva autonomia. Tutti coloro – senza tanto arrovellarsi sulla loro buona fede o meno, tanto sappiamo che “di buone intenzioni è lastricata la via che conduce all’Inferno” – che si oppongono a questa politica, aggrappandosi a vecchie mitologie (che si tratti della Classe o della Patria o della Razza, poco importa), sono da considerarsi un ostacolo da superare. Intanto culturalmente, in mancanza di altre possibilità più incisive. Basta con le buone maniere nei confronti di chi ripropone le vecchie – e ormai “cagliostresche” – antinomie: borghesia e proletariato, capitale e lavoro, fascismo e antifascismo, destra e sinistra, “socialismo o barbarie” (esistono perfino simili reperti archeologici), e altre ancora.
Quanto agli ambientalisti fondamentalisti e paralizzatori, agli antisviluppisti e ai romantici rifiuti di ogni necessaria modernizzazione tecnico-scientifica, trattiamoli con il dovuto disprezzo e con l’acrimonia che si prova di fronte a nemici veri e propri, che non meritano alcun rispetto. Si è già perso troppo tempo. O troviamo ascolto in ben altri ambiti, tra la gente sensata, moderna, con lo sguardo rivolto al futuro; o altrimenti è meglio andare a casa, perché si fa meno danno. Noi siamo per lo sviluppo, per la potenza politica, per le grandi innovazioni, per tutte le possibili fonti di energia, a partire da quelle di più immediato utilizzo nel medio periodo, quello in cui possa avviarsi infine il desiderato policentrismo. Per l’intanto, adeguiamo a questi intendimenti la nostra battaglia culturale contro le ideologie del cedimento, della viltà, dell’ignominia, della ristrettezza mentale e meschinità da “subordinati”.
Finito il 27 maggio 2008
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