TENIAMO MARX FUORI DA QUESTA FACCENDA di G.P.

 

I fenomeni scientifici, in effetti, solo raramente sono fenomeni di evidenza; in generale sono fenomeni teorici costruiti contro l’evidenza

Alain Prochiantz

 

Maledetta crisi finanziaria, non bastavano le dense nubi all’orizzonte ad annunciare una tempesta dalle proporzioni immani e di lunga durata – nei confronti della quale i ripari approntati dagli organi governativi di tutto il mondo occidentale appaiono sempre più simili alla casa di paglia del piccolo porcellino della nota fiaba – ma dobbiamo pure sorbirci le sentenze degli economisti che rassicurano o scoraggiano a seconda degli sbalzi degli indici di borsa. Rispetto a questi confusionari credo che  Tremonti abbia detto una parola definitiva parlando di capitale intellettuale degli stessi che si è praticamente azzerato.

La speranza di detti mestatori è che il vento della crisi non arrivi a soffiare troppo forte sul proprio “uscio nazionale” perché altrimenti le loro insipide ricette si mostreranno per quello che realmente sono, ministre riscaldate da raccogliere con la forchetta.

Il crollo di alcune tra le più potenti istituzioni del sistema creditizio mondiale rappresenta, difatti, appena l’antipasto della fase nella quale ci accingiamo ad entrare, a causa di un cortocircuito sistemico che, al momento, manifesta i suoi effetti più drammatici a livello finanziario. Mano a mano che i riflessi della crisi si trascineranno sull’economia reale (anche qui apparenza ed essenza appaiono ancora rovesciate, in quanto le cause più profonde della crisi sono da ricercarsi in ben altri ambiti sociali per quanto certe condensazioni siano più visibili nella sfera finanziaria, dove la duplicazione fittizia del corrispondente monetario delle merci fisiche genera una ridondanza “ologrammatica” che avvitandosi su sé stessa provoca grande fragore) provocando sconquassi crescenti, i cori incrociati dei pasdaran del sistema e dei suoi contestatori più accessi si faranno sempre più assordanti. Tra cornacchie che gracchiano e cavalli che nitriscono il caos avanzerà inarrestabile. Le ciurmaglie di pseudo-marxisti, in tutte le salse rivoluzionarie, fiancheggiate di battitori catastrofisti delle diverse correnti post-moderne stanno fronteggiando, in “singolar tenzone”, gli untori liberisti e i “mediatori” statalisti (tornati in auge dopo anni di silenziamento), ma si tratta del solito gioco antitetico-speculare che ormai conosciamo a menadito, da quante volte lo abbiamo descritto nelle nostre analisi.

Ne abbiamo davvero sentite di tutti i colori: da destra a sinistra, dai neoliberisti ai neokeynesiani, dagli iper-liberisti professorali agli scolastici del marxismo universitario, dai mercatisti agli statalisti; tutti lì a cianciare sulla nuvoletta di passaggio dietro la quale continua a brillare il sole del capitalismo oppure a esultare biblicamente per l’imminente apocalisse che annuncia l’ultima ora del sistema.

E si sprecano anche i richiami alla letteratura dell’una e dell’altra parte, con dati e profezie alla mano: da Adam Smith a Carlo Marx, da von Hayek a Sweezy, da Friedman a Keynes passando per Shumpeter, fino agli impronunciabili anacoreti dei nostri giorni, i quali hanno tutti previsto qualcosa (più o meno aggiustando il tiro dei loro maestri storici), ma si tratta, come sempre, di previsioni così vaghe che non potevano non avverarsi alla stregua  dei segreti della Madonna di Fatima.

Persino un Petit économiste come Baldassari tira fuori un suo libro di tre anni fa dove aveva previsto tutto. E poi si lascia scappare che in Italia le banche sono più solide perché, in questi anni, sono stati realizzati superprofitti grazie alle condizioni nelle quali queste hanno potuto effettuare la raccolta dei risparmi, concedere prestiti e pagare interessi minimi, derubando milioni di persone e migliaia di imprese.

Tra la pletora degli illusionisti “oracolari” si schiera anche il sociologo ed economista statunitense Immanuel Wallerstein.

Sentite cosa ha dichiarato a Le Monde il vate del sistema-mondo: “Sono convinto, in effetti, che da almeno 30 anni siamo entrati nella fase terminale del sistema capitalista. Ciò che differenzia fondamentalmente questa fase dalla successione ininterrotta dei cicli congiunturali passati è il fatto che il capitalismo non perviene più a «farsi sistema», nel senso in cui lo intende la fisica e chimica Ilya Prigogine (1917-2003): cioè quando un sistema, biologico, chimico o sociale, devia troppo sovente dalla sua situazione di stabilità e non arriva più a ritrovare l’equilibrio. Si assiste allora a una biforcazione: la situazione diventa caotica, incontrollabile per le forze che la dominavano fino a quel momento. Emerge in questo modo una lotta non più tra sostenitori e avversari del sistema, ma tra tutti gli attori che lo compongono per arrivare a determinare ciò che potrebbe rimpiazzarlo. Personalmente riservo la parola «crisi» a questo tipo di periodi. E bene, oggi siamo in crisi. Il capitalismo è giunto alla sua fine”. Sono queste, più o meno, le stesse conclusioni alle quali arriva Arrighi nella parte finale de “Il lungo XX secolo". Ma non è tutto perché secondo Wallerstein: “Si è aperto un lasso di tempo all’interno del quale vi è la possibilità d’influenzare l’avvenire con la nostra azione individuale.” Bene, quindi malissimo, perché se le cose stanno in questi termini siamo davvero tutti fottuti, tanto individualmente che collettivamente. Ma non proprio tutti. Le classi dominanti, al momento opportuno e quasi spontaneamente faranno la sintesi di questo caos e torneranno a governarlo secondo gli “squilibri” di sempre, dichiarandosi guerra ma nell’alveo di rapporti sociali intersistemici ampiamente riformati. Altro che equilibrio! L’equilibrio è l’anticamera della morte per il sistema capitalistico, quest’ultimo ha sempre viaggiato su una continua corrente conflittuale le cui concrezioni fisiche (apparati e istituzioni) sono appunto il precipitato fenomenico di tale dinamica e dei tentativi per ricondurre entro un ambito di maggiore prevedibilità gli esiti stessi di detti impulsi conflittuali. Di fronte a questi processi sociali l’individuo conta come il due di picche e senza la capacità di organizzare i dominati entro blocchi sociali contrastivi che vadano ad inserirsi in tali scontri per dirottarne il flusso energetico, sfruttandolo a proprio favore nei momenti storici propizi, non vi sarà alcuna trasformazione sociale. Il capitalismo, molto più semplicemente, a presupposti immutati, continuerà a rinascere, seppur trasformato o trasfigurato, dalle sue stesse ceneri.

 

Un altro punto sul quale vorrei dire una parola riguarda direttamente ciò che si manifesta dalle “nostre parti” teoriche.

Dopo aver attribuito a Marx il merito di aver preannunciato la globalizzazione, che è solo una mera variante ideologica postmoderna di una tendenza da sempre intrinseca al capitalismo, basata sulla diffusione capillare del sistema delle merci affermantesi attraverso i due pilastri capitalistici dell’industria moderna  e del mercato in continua espansione, adesso gli si riconosce anche il merito di aver previsto la fine del capitalismo a causa degli sconquassi finanziari. Per chiarire questo punto dobbiamo riportare direttamente le sue parole, tratte dal III libro del Capitale e che riprendo da un mio articolo che sarà pubblicato sul prossimo numero di Comunismo e Comunità:

“Trasformazione del capitalista realmente operante in semplice dirigente, amministratore di capitale altrui, e dei proprietari di capitale in puri e semplici proprietari, puri e semplici capitalisti monetari. Anche quando i dividendi che essi ricevono comprendono l’interesse ed il guadagno d’imprenditore, ossia il profitto totale (poiché lo stipendio del dirigente è o dovrebbe essere semplice salario di un certo tipo di lavoro qualificato, il cui prezzo sul mercato del lavoro è regolato come quello di qualsiasi altro lavoro), questo profitto totale è intascato unicamente a titolo d’interesse, ossia un semplice indennizzo della proprietà del capitale, proprietà che ora è, nel reale processo di riproduzione, così separata dalla funzione del capitale come, nella persona del dirigente, questa funzione è separata dalla proprietà del capitale. In queste condizioni il profitto (e non più soltanto quella parte del profitto, l’interesse, che trae la sua giustificazione dal profitto di chi prende a prestito) si presenta come semplice appropriazione di plusvalore altrui, risultante dalla trasformazione dei mezzi di produzione in capitale, ossia dalla loro estraniazione rispetto ai produttori effettivi, dal loro contrapporsi come proprietà altrui a tutti gli individui realmente attivi nella produzione, dal dirigente fino all’ultimo giornaliero”. Lo sbocco di tale situazione è allora “… un momento necessario di transizione per la ri-trasformazione del capitale in proprietà dei produttori, non più però come proprietà privata di singoli produttori, ma come proprietà di essi in quanto associati, come proprietà sociale immediata. E inoltre è momento di transizione per la trasformazione di tutte le funzioni che nel processo di riproduzione sono ancora connesse con la proprietà del capitale, in semplici funzioni dei produttori associati, in funzioni sociali”. E se non dovesse essere abbastanza chiaro ecco come si chiude tale disamina: “Questo significa la soppressione del modo di produzione capitalistico, nell’ambito dello stesso modo di produzione capitalistico, quindi è una contraddizione che si distrugge da se stessa, che prima facie si presenta come semplice momento di transizione verso una nuova forma di produzione. Essa si presenta poi come tale anche all’apparenza. In certe sfere stabilisce il monopolio e richiede quindi l’intervento dello Stato. Ricostituisce una nuova aristocrazia finanziaria, una nuova categoria di parassiti nella forma di escogitatori di progetti, di fondatori e di direttori che sono tali semplicemente di nome; tutto un sistema di frodi e di imbrogli che ha per oggetto la fondazione di società, l’emissione e il commercio di azioni. È produzione privata senza il controllo della proprietà privata”.

Marx è convinto che, nel giro di poco tempo, all’interno stesso del modo di produzione capitalistico, con l’accentramento crescente dei capitali nelle mani di pochi individui a causa del divenire preponderante della speculazione, la razzia capitalistica, perpetrata a danni della classe lavoratrice, si sarebbe ritorta anche sul grosso dei piccoli e medi capitalisti, i quali, per ironia della storia, sarebbero diventati, a loro volta, vittime del tritacarne capitalistico che avevano contribuito a mettere in moto:  “Tale espropriazione costituisce il punto di partenza del modo di produzione capitalistico, e allo stesso tempo il suo scopo, che è, in quella analisi, quello di espropriare i singoli individui dei mezzi di produzione, che con lo sviluppo della produzione sociale cessano di essere mezzi della produzione privata e prodotti della produzione privata, e che possono essere ancora soltanto mezzi di produzione nelle mani dei produttori associati, quindi loro proprietà sociale, così come sono loro prodotto sociale. Ma nel sistema capitalistico questa espropriazione riveste l’aspetto opposto, si presenta come appropriazione della proprietà sociale da parte di pochi individui, e il credito attribuisce a questi pochi sempre più il carattere di puri e semplici cavalieri di ventura. Poiché la proprietà esiste qui sotto forma di azioni, il suo movimento ed il suo trasferimento non sono che il puro e semplice risultato del giuoco di borsa dove i piccoli pesci sono divorati dagli squali e le pecore dai lupi di borsa. Nel sistema azionario è già presente il contrasto con la vecchia forma nella quale i mezzi di produzione sociale appaiono come proprietà individuale; ma la trasformazione in azioni rimane ancora chiusa entro le barriere capitalistiche; in luogo di annullare il contrasto fra il carattere sociale ed il carattere privato della ricchezza, essa non fa che darle una nuova forma… Le imprese azionarie capitalistiche sono da considerarsi…come forme di passaggio dal modo di produzione capitalistico a quello associato”.

Infine, la crescita spropositata del sistema creditizio e della speculazione borsistica se, da un lato, permettono lo sviluppo incessante della produzione capitalistica “cioè l’arricchimento mediante lo sfruttamento del lavoro altrui, fino a farla diventare il più colossale sistema di giuoco e d’imbroglio, limitando sempre più il numero di quei pochi che sfruttano la ricchezza sociale” dall’altro non sono che l’ “estrema unzione” che annuncia l’al di là del Capitale, il nuovo sistema di produzione basato sulla cooperazione dei liberi produttori associati.

Avete capito bene? Marx non pensa che il capitalismo crollerà a causa della speculazione che farà avvitare il sistema su se stesso, ma è invece convinto che questo fenomeno diverrà intollerabile allorché, nel processo produttivo, il lavoratore collettivo avrà preso coscienza della propria forza, potendo fare a meno dei rentier parassitari che gli estorcono pluslavoro, nella forma del plusvalore (e senza più tante schermature ideologiche), non contribuendo più a produrre ciò che vanno a prelevare. Adesso chi vuol capire capisca…