TUTTO TORNA, MA DIVERSO di G. La Grassa

 

Presentazione di Gianni Petrosillo

 

Vi proponiamo sul nostro sito (www.ripensaremarx.it) il saggio di Gianfranco La Grassa “TUTTO TORNA, MA DIVERSO” il cui titolo evoca quel concetto di ricorsività delle epoche storiche più volte enunciato dal Nostro in numerosi altri scritti. In tal senso, si può ben dire che Historia magistra vitae est anche se forme e manifestazioni del suo divenire, almeno quelle che essa ha già “vestito”, non possono essere proiettate linearmente nel futuro, il quale resta tutto da scoprire essendo aperto a molte possibilità di svolgimento.

Sotto questo punto di vista, è indubitabile che oggi il concetto di modo di produzione capitalistico o le acquisizioni rinvenienti dalla teoria del valore (in quanto base di smascheramento dell’estorsione del pluslavoro nel processo produttivo) sono ancora valide per interpretare alcuni aspetti della formazione(i) sociale(i) espressione del sistema capitalistico (anche se non la esauriscono), ma è altrettanto chiaro che i mutamenti prodottisi negli ultimi cento anni e passa ci costringono ad abbandonare tutte quelle previsioni che si sono rivelate errate o lontane dalla realtà.

Trovandoci in una fase transeunte nella quale non si ha una “visuale” privilegiata dello sviluppo dei complessivi fenomeni sociali, occorre procedere a piccoli passi anche facendo qualche “schematico” confronto con i periodi precedenti, tenendo però sempre ben in evidenza le avvertenze di cui parlavo poco sopra.

Per esempio, La Grassa volgendo lo sguardo a ritroso, individua una certa similarità tra la fase storica presente e quelle passate che sono poi sfociate in grandi trasformazioni epocali. Tra queste ne vengono indicate alcune: la Rivoluzione Francese, i moti del 1848 e la Rivoluzione d’Ottobre.

Subito dopo la caduta dei grandi ideali che animarono la Rivoluzione Francese (liberté, egalité fraternité) divennero definitivi alcuni grandi cambiamenti che avevano attraversato il “laboratorio di decantazione” settecentesco ma che si erano comunque dispiegati in maniera abbastanza differente rispetto a quanto immaginato dai giacobini e, soprattutto, dagli strati più bassi della società francese (penso ai sanculotti) che avevano partecipato attivamente a tali avvenimenti.

Di pari “quota” fu anche il 1848, momento topico in cui esploderanno forti tumulti in tutta Europa, frutto di una lunga decantazione anteriore che precisò la consistenza di dinamiche generali fino ad allora ancora difficili da abbracciare nella loro totalità. Di fatti, prima che esplodesse la fase delle sollevazioni “quarantottesche” erano state elaborate molte teorie utopistiche – ognuna con la pretesa di saper riconoscere i futuri scenari secondo i quali sarebbe stata progettata la società dell’avvenire – che, alla prova dei fatti, risultarono del tutto incapaci di accostarsi alle fogge fenomeniche di detti rivolgimenti e delle conseguenti trasformazioni.

Possiamo, pertanto, sostenere che il movimento della storia è colto dal pensiero secondo una scala di gradualità, la quale si fa più precisa mano a mano che vengono a dispiegarsi le contraddizioni sociali principali e gli attori che si confrontano sulla scena della storia.

Ad esempio, molto spesso le nobili aspirazioni dei rivoluzionari più radicali, si sono scontrate con punti di “approdo” non preventivati che testimoniavano della non coincidenza tra movimento ideale (quello che aveva alimentato la loro conflittualità) e sostanza effettiva dei cambiamenti verificatisi. Quando ciò è accaduto, di fronte al tradimento dei presupposti ispiratori del movimento trasformativo, i pensatori più massimalisti hanno reagito facendo fiorire una serie di utopie romantiche e reazionarie (Owens, Fourier ecc. ecc.) atte a riprodurre un “mondo perduto” e idilliaco legato alla visione dei gruppi sociali stritolati dalla metamorfosi sociale.

Se tale indicazione di principio è valida è, altresì, innegabile che nessuna teoria scientifica può però essere elaborata con precisione se le antinomie essenziali che attraversano il panorama societario non sono venute “tangibilmente” allo scoperto. Tuttavia, chi in quella nebulosa, riesce ad individuare qualche punto fermo può, in seguito, farsi trovare preparato di fronte alla “sedimentazione” dei processi storici.

Marx ed Engels scrissero il Manifesto del Partito Comunista nel 1847 perché in quel momento si stava consolidando lo scontro frontale borghesia-proletariato, potendone, altresì, derivare conseguimenti conoscitivi più precisi che portavano la teoria “dal sentiero dell’utopia alla strada della scienza”. Dal Terzo Stato erano venute fuori due classi (appunto borghesia e proletariato) che saranno protagoniste di tutta una fase e delle quali Marx aveva seguito con pazienza il compattamento, secondo un’ ipotesi “preventiva” di polarizzazione sociale sempre più accentuata.

Per questo La Grassa sostiene, a ragione, che “Nessuno, nemmeno due volte più geniale di Marx, avrebbe mai potuto scrivere Il Manifesto (elaborato nel 1847 e uscito nel gennaio del 1848) dieci o vent’anni prima”. Finché i sommovimenti in seno alla società non vengono a circostanziarsi, raggiungendo un certo grado di maturità, la corrispondente lettura teorica resterà approssimativa e sempre soggetta ad errori grossolani di definizione e di previsione. Non è un caso che lo stesso Marx parlerà di contrapposizione tra capitale-lavoro (e dunque di borghesia contro proletariato) potendone però specificarne sempre meglio le forme lungo tutto l’arco della sua produzione teorica che sarà sistematizzata solo con l’elaborazione del I libro del Capitale (1867). Nel 1871 (la Comune parigina), dopo più di vent’anni dalla redazione del Manifesto e dopo pochi anni dall’uscita del Capitale, Marx potrà dare finalmente un “volto” alla “forma finalmente scoperta” della dittatura proletaria (da lui abbozzata teoricamente), in quanto manifestazione concreta di un possibile passaggio dal capitalismo alla società comunista.

Detto ciò, diviene fondamentale il parallelo fatto da La Grassa tra il Terzo Stato e il nostro concetto ripostiglio di “Ceto Medio” che raccoglie un ammasso di figure sociali e di profili lavorativi differenziati per fasce di reddito e per cultura. Soltanto allorquando la precipitazione dei processi storici condurrà ad un conflitto dirompente all’interno della società si potranno sceverare, inforcando adeguate lenti teoriche, le possibili alleanze e le convergenze utili alla costruzione di uno o più blocchi sociali antisistemici. Ma a questa possibilità occorrerà prepararsi senza rincorrere i romanticismi utopici che abbondano in questa fase (proprio come nelle stagioni di riflusso delle precedenti epoche storiche), “calando” sulla realtà una rete teorica a maglie larghe, fino a che non sarà possibile elaborare “teorie sufficientemente semplici come quelle del modo di produzione e del valore nel pensiero di Marx (La Grassa)”.

In sostanza, dopo ogni grande esplosione rivoluzionaria, anticipata da una fase di decantazione, si producono importanti trasformazioni che, tuttavia, possono non corrispondere ai progetti iniziali dei gruppi che cavalcano tali processi, nonostante questi siano convinti di stare governando il cambiamento. In seguito, può anche generarsi (è questo il caso dei bolscevichi), alle spalle di tali soggetti, una falsa coscienza necessaria con la quale si continuano a mantenere certe aspirazioni attraverso precise parole d’ordine mentre, nei fatti, si sta procedendo lungo binari del tutto differenti (basti pensare alla cominciata e mai realizzata “costruzione del socialismo” in URSS nonostante la classe dirigente sovietica continuasse imperterrita a rubricare la sua azione sotto questa voce).

Sta di fatto che siamo in una situazione in cui il vecchio sistema categoriale è quanto mai ineffettuale e ci spiega sempre meno delle tensioni che attraversano i raggruppamenti sociali e la stessa riproduzione sistemica.

La Grassa dice esplicitamente che la situazione nella quale siamo immersi è molto più simile al 1830 che non al 1848 o al 1917. Non si sono ancora verificate quelle condensazioni (sociali e storiche) che possono consentirci di dipanare al meglio la struttura verticale della formazione(i) capitalistica particolare o la segmentazione spaziale di quella globale. Siamo nel campo delle ipotesi (ma non in quello dell’azzardo) e degli aggiustamenti incessanti che dalla teoria ci rinviano alla pratica e da questa ancora alla prima, passaggi utili a calibrare, con sempre maggiore accuratezza, le lenti teoriche che ci restituiscono immagini ancora “sdoppiate”.

Abbiamo, nondimeno, la consapevolezza di dover combattere, in questo “stadio”, una dura battaglia per sgombrare il campo dai detriti stratificatisi delle ideologie del passato, siano quest’ultime conservative o falsamente rivoluzionarie. Da un lato, il liberismo e lo statalismo, teorie logore e speculari che alternando le loro falsità a seconda della congiunture (più o meno sbilanciate sul primo versante quando la situazione economica è stabile o in crescita, totalmente schiacciate sul presunto ruolo riequilibratore dell’organismo pubblico, quando le disparità tra le classi sociali si fanno incipienti, soprattutto nei periodi di crisi) si sottomettono in ogni caso ai voleri della prepotenza statunitense. Dall’altro, le teoresi nostalgiche e “fuori tempo”, tanto di estrema destra che di estrema sinistra, sempre in attesa di una crisi più o meno definitiva del capitalismo che riporti l’orologio della storia indietro di un centinaio di anni. In mezzo a queste correnti è tutto uno sbocciare di pensieri prêt-à-porter che mutano come le mode (inutile dire a chi mi riferisco tanto lo sapete già) e sono terreno di cultura di ideologie di disorganizzazione e indebolimento, in grado al massimo di aprire la strada, con modalità di particolare durezza, allo schiacciante predominio di forze o apertamente reazionarie…o rivoluzionarie dentro il capitale (G. La Grassa).

Dietro queste dottrine ci sono i nemici da combattere: il campo sociale deve essere ripulito da tutta la gramigna affinché questa non distrugga la parte sana del seminato.