UN DISCORSO "DI FASE"

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Parte prima: Lo sfondo generale
1. Dato il poco spazio a disposizione, debbo dare per scontata la conoscenza di alcuni termini qui impiegati e della problematica che li sottende. Non potendo pretendere la conoscenza di molti miei lavori precedenti, indico come piuttosto indispensabile almeno la lettura di un testo molto breve: Movimenti progressivi (verso la ricostruzione di una teoria critica della società capitalistica), Punto rosso Milano 1998; e, se qualcuno fosse più volenteroso, Lezioni sul capitalismo, Clueb Bologna 1996.
La precedente epoca (di tipo monocentrico) del capitalismo, caratterizzata dalla incontrastata prevalenza, economica oltre che politica e militare, degli USA, e dal confronto tra campo capitalistico e campo detto socialista (che in realtà tale non era, ma comunque era, sotto molti punti di vista, antagonistico rispetto al capitalismo che possiamo definire tradizionale), è durata dalla fine della seconda guerra mondiale fino a circa metà degli anni ’70. In questo torno di tempo, si consumò la rapida obsolescenza del marxismo quale teoria critica della società capitalistica. Le tesi fondamentali di tale teoria erano due: quella più ortodossa e di derivazione terzinternazionalista (ma che, in campo economico, non si differenziava in modo sostanziale da quella di stampo secondinternazionalista) e quella “critica”, che aveva il suo referente principale, anche se non esclusivo, nell’opera di Baran e Sweezy, nel cui marxismo confluivano molti temi del keynesismo, allora in via di crescente affermazione nell’ambito della teoria economica accademica, quella definita “borghese”.
La tesi tradizionale continuava imperterrita a sostenere la crisi generale del capitalismo, già teorizzata prima della guerra soprattutto a partire dalla “grande crisi” (‘29-’33). Il sistema dei rapporti di produzione, fondato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, rappresentava ormai un ostacolo all’ulteriore sviluppo delle forze produttive; a fronte del sistema capitalistico si era costituito un campo di rapporti collettivistici (in realtà statali) in economia, con pianificazione della produzione, caratterizzato da tali ritmi di sviluppo che facevano prevedere, nel giro di una ventina d’anni o poco più, il superamento, nella produzione di “burro, carne e acciaio”, degli USA da parte dell’URSS e dell’Inghilterra da parte della Cina; oltre alla troppo affrettata dichiarazione di vittoria sovietica nel campo della gara spaziale con il lancio del primo sputnik nel ’57. In paesi capitalistici “di confine” come l’Italia, malgrado l’intoppo costituito dalla schiacciante vittoria democristiana nel ’48, sussisteva un larghissimo settore imprenditoriale statale – costituitosi sotto il fascismo, e allargatosi al fondamentale settore energetico del petrolio e affini con l’ENI di Mattei e poi all’industria elettrica dopo la costituzione del centro-sinistra (DC-PSI) nei primi anni ’60 – che sarebbe servito in funzione antimonopolio privato e per una graduale transizione al socialismo per via democratico-parlamentare, ove le masse lavoratrici, guidate dal PCI, avessero progressivamente ottenuto la maggioranza nelle elezioni. In definitiva, era ormai vicino il momento in cui il campo socialista (e l’economia statale) avrebbe superato il 50% della produzione mondiale, mettendo in moto il superamento pacifico del capitalismo (interpretato come pura economia fondata sulla proprietà privata e sull’anarchia mercantile) ormai putrescente e incapace di sviluppo.
Le teorie marxiste critiche si rifacevano alle tesi di certi autori keynesiani (ad es. Hansen) affermanti la presenza di un eccesso di risparmio nei paesi capitalistici ormai opulenti, che non avrebbe più potuto alimentare investimenti di entità corrispondente, poiché era considerata ormai finita l’era delle grandi innovazioni ad alta intensità di capitale del tipo delle ferrovie, dell’automobile, ecc. Anche l’espansione territoriale e l’aumento della popolazione – altri fattori importanti di nuovi investimenti – erano considerati ormai esauriti (è interessante ricordare che Schumpeter, nella sua polemica contro gli stagnazionisti keynesiani, ricordò sia che nel 1820 nessuno poteva immaginare i grandi investimenti nelle ferrovie e che a fine secolo nessuno poteva immaginare quelli nel settore automobilistico; sia che lo spazio sarebbe potuto diventare altrettanto importante di quanto era stato
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nell’ 800 il territorio. Quando si dice la superiorità che a volte manifesta persino il semplice “buon senso” – anche se, senza dubbio, Schumpeter non era comunque dotato solo di buon senso – a fronte della pura deduzione da teorie magari assai raffinate, ma ormai irrigiditesi a semplice “scolastica”, quando non addirittura a “catechismo” completamente avulso dai possibili mutamenti della “storia”!).
Gli stagnazionisti marxisti aggiunsero alle tesi keynesiane della carenza di domanda (in specie per la parte concernente gli investimenti) quelle di Steindl (ma ricorderei anche Kalecki) relative alla struttura oligopolistica dei mercati, che consentiva collusioni tra le grandi imprese con accentuazione del fenomeno dell’insufficiente domanda d’investimento connesso alla caduta della competitività interimprenditoriale nel mercato. Poiché proprio in quel periodo il capitalismo si sviluppò a ritmi estremamente elevati – infine nettamente superiori a quelli del “socialismo”, in specie nell’epoca della stagnazione “brezneviana” – la spiegazione fu trovata nelle imprese neocoloniali e nelle forti spese militari che queste consentivano, con assorbimento dell’eccesso di risparmio e riequilibrio del rapporto tra offerta e domanda al livello di quasi piena occupazione.
2. Ci si accorse ben presto che un’ulteriore modificazione era intervenuta, quella relativa all’estensione del Welfare State, e quindi delle politiche economiche di sostegno alla domanda (in questo caso di beni di consumo) già lanciate in occasione del New Deal negli USA, ma che produssero veri effetti espansivi solo nel dopoguerra. Anche questa modificazione fu assunta troppo frettolosamente come semplice effetto del pungolo che al capitalismo occidentale poneva lo sviluppo del “campo socialista” (e il fatto che, dopo il crollo di tale campo nell’89-’91, anche lo “Stato del benessere” sia stato rimesso in discussione, è sembrato una conferma del precedente assunto; dimenticandosi che il neoliberismo aveva già abbondantemente battuto in breccia il keynesismo a partire dalla fine degli anni ’70, inizio anni ’80). Senza negare la causa collaterale rappresentata dalla presenza del campo “socialista”, è bene considerare la generalizzazione di un certo ben specifico intervento dello Stato in campo economico e sociale, cui ha corrisposto un forte sostegno alla domanda globale dal lato dei consumi, come prodotto del sostanziale dominio complessivo del campo capitalistico da parte di una sua sezione (corrispondente agli USA), che aveva assunto in esso una prevalenza di tipo tale da essere in grado di coordinare di fatto l’intero campo, pur nella sussistenza della classica concorrenza mercantile intercapitalistica.
La centralità assunta dagli USA – che sostituì quella avuta dall’Inghilterra per gran parte dell’ 800 – diede insomma vita ad un capitalismo relativamente organizzato, in cui la minor spinta a grandi investimenti ad alta intensità di capitale fu sostituita dal crescente intervento statale con controllo e regolazione delle quantità macroeconomiche relative a risparmi, investimenti, consumi. In particolare, l’intervento dello Stato si sviluppò nel settore della spesa per infrastrutture e in quello comportante una certa redistribuzione del reddito verso i ceti meno abbienti, atta a favorire l’innalzamento della propensione globale al consumo. La stagnazione “potenziale” si mutò così in sviluppo sostenuto. La potenziale crisi da carenza di domanda – interpretata dal marxismo più tradizionale, in specie quello di origine luxemburghiana, come semplice crisi da sottoconsumo – non ebbe modo di manifestarsi perché contrariamente alla supposta, dai marxisti in questione, impossibilità per il capitalismo di dar vita a consistenti aumenti dei redditi da lavoro dipendente, si verificò invece proprio l’aumento in questione.
Nel capitalismo detto della libera concorrenza – in realtà nell’epoca policentrica dell’anarchica competizione intercapitalistica – i salari vengono soprattutto in evidenza come costo di produzione per ogni singola unità produttiva, costo da contenere onde quest’ultima non diminuisca i suoi profitti e soprattutto non perda in capacità competitiva nel mercato. Nel capitalismo relativamente organizzato, del tipo di quello del trentennio susseguente alla seconda guerra mondiale, i salari vennero considerati anche nel loro aspetto di domanda dei beni di largo consumo (quelli legati alla grande produzione standardizzata dove la migliore organizzazione dei processi lavorativi consentiva ampi aumenti di produttività e riduzione dei costi per questa via), senza poi considerare che gli aumenti salariali potevano essere in parte scaricati sui prezzi. Naturalmente, le diverse variabili – aumento
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dei salari, dei prezzi (che riducono i salari reali), della produttività del lavoro (che riduce il numero dei lavoratori occupati per ogni data quantità prodotta), ecc. – non sono certo fra loro armonicamente correlate, ma anzi contraddittorie. Tuttavia, in quell’epoca monocentrica, furono possibili – via interventi dello Stato, ma non solo – una serie di aggiustamenti che consentirono comunque al sistema di non rimanere impigliato in quelle secche della stagnazione, che certi marxisti scolastici continuavano a sostenere, prevedendo la prossima fine di tale sistema e l’avvento pacifico del socialismo.
In quell’epoca, si verificarono anche altri mutamenti, che la più grossolana macroeconomia statalista, sia keynesiana che marxista, non era in grado di cogliere in tutta la loro rilevanza. L’unità produttiva capitalistica, costituita ormai dall’inizio del secolo dalla grande impresa oligopolistica, oltre a sviluppare ulteriormente le proprie dimensioni, affinava e complessificava sempre più la propria struttura interna, passando attraverso la costituzione in dipartimenti funzionali e poi in divisioni per prodotti. Soprattutto, veniva formandosi in essa un’articolazione delle relazioni tra parti potenzialmente aperta a flessibilizzazioni (e non a rigide pianificazioni), in qualche modo assimilabile ad una sorta di mercato interno1. Articolazione certo nettamente prevaricata, nell’epoca del capitalismo relativamente organizzato, da un assetto gerarchico dei rapporti intraimprenditoriali piuttosto rigido, ma che avrebbe poi consentito, nella successiva epoca policentrica apertasi da una ventina d’anni, di dare all’impresa una connotazione tale da riporla al centro del sistema dei rapporti di produzione capitalistici, quel centro che nell’epoca precedente era sembrato ormai irrimediabilmente rappresentato dall’intervento dello Stato in economia, con la conseguente formulazione delle tesi marxiste relative all’irreversibile affermazione dello stadio del capitalismo monopolistico di Stato (Stato in quanto nuova struttura del sistema sociale), trattato inoltre quale ultimo gradino in direzione della definitiva affermazione del socialismo.
Un’altra modificazione, di imponenti proporzioni, fu rappresentata dallo sviluppo del settore detto terziario o dei servizi, dove si situa una parte consistente di quelli che vengono definiti ceti medi. Non semplicemente si sviluppò il piccolo commercio (ma questo soprattutto in Italia, fra i paesi capitalistici avanzati), settore in genere a scarso avanzamento tecnologico e a basso contenuto in capitale, che ha costituito un importante volano sociale soprattutto per contenere potenziale disoccupazione2. Soprattutto andarono crescendo, e trasformandosi nelle loro più specifiche funzioni e contenuti, le cosiddette professioni liberali (i “professionisti”) e si crearono imponenti settori di servizi connessi in particolare alle politiche di vendita delle grandi imprese oligopolistiche. Infine, va rilevato che, oltre al settore dei servizi, crebbe anche la piccola dimensione imprenditoriale nel settore industriale (quello detto impropriamente “artigianato”), che troppo spesso è considerato tipico dell’Italia, mentre si è poi diffuso anche negli altri paesi capitalistici avanzati.
In particolare, per quanto concerne quest’ultimo settore, possiamo oggi constatare che – similmente a quanto avvenuto per la complessificazione dell’organizzazione intraimprenditoriale, in un primo tempo celata e sovradeterminata dalla rigida gerarchia aziendale, ma poi decisiva ai fini dell’imponente sviluppo delle grandi imprese, e della sempre più acuta competizione tra di esse, nella nuova epoca policentrica – anche il settore piccolo-imprenditoriale “artigianale” si è inizialmente affermato quale satellite della grande impresa, quale sostanziale parte del suo ciclo produttivo complessivo parzialmente devoluto all’esterno, ma ha nel contempo favorito l’espansione, l’accumulo, l’affinamento, di abilità e “creatività” di tipo imprenditoriale che, nella nuova epoca della riaccesasi aspra concorrenzialità, ha consentito l’estensione di questa attività piccolo-imprenditoriale verso
1 Per tali problemi si veda il mio breve opuscolo Microcosmo del dominio, CRT Pistoia 1998; e per ulteriori chiarificazioni circa il mutamento d’epoca l’altro opuscolo delle stesse edizioni, Dai tre mondi alla globalizzazione capitalistica.
2 E’ molto interessante notare che in paesi di nuovo sviluppo capitalistico, in specie quelli già socialisti (tipico il caso della Cina, ma non solo), il piccolo commercio, spesso addirittura ambulante, conosce uno sviluppo veramente considerevole, che ammortizza parzialmente il costo sociale, in particolare quello connesso alla disoccupazione, delle trasformazioni dell’economia detta collettivistica (statale) in economia di tipo sempre più specificamente capitalistico. E sarebbe altrettanto interessante fare considerazioni sullo sviluppo di un consistente ceto medio (solo di status e non certo di reddito) nei paesi “socialisti”, già assai prima del loro “crollo”, poiché tale crescita non è stata per nulla inessenziale nella corrosione delle basi sociali di quelle forme particolari di società e nel promuovere la loro veloce implosione.
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settori nuovi (“nicchie”) non strettamente coessenziali e dipendenti rispetto alla produzione delle grandi imprese.
3. Tutti i fenomeni appena rilevati hanno comportato una crescita fortissima, ma anche un arricchimento dei cosiddetti ceti medi sia interni che esterni alla grande impresa, sia nell’industria che nei servizi1. Tali fenomeni sono purtroppo stati interpretati da tutti noi marxisti, anche quelli che pure non erano particolarmente ortodossi, in modo fortemente errato e distorto. In gran parte, i ceti medi (cioè il reddito di cui godevano) sono stati considerati una fonte di sperpero della ricchezza prodotta dai veri produttori, quasi esclusivamente identificati con la sola “classe” operaia. Tale presunto sperpero avrebbe provocato una riduzione delle stesse possibilità espansive degli investimenti capitalistici ritenuti “produttivi” (di valore e plusvalore). Se ne trasse allora la conclusione che, anche per questa via, il sistema capitalistico creava esso stesso barriere insuperabili al suo ulteriore sviluppo.
Si pensava che l’intervento dello Stato potesse, per un certo periodo di tempo, “drogare”, keynesianamente, detto sviluppo, ma fosse in grado di farlo alimentando in sostanza ancora la crescita dei ceti “improduttivi”. La spesa in deficit (crescente) di bilancio, non sostenendo il “vero” settore produttivo, avrebbe comportato un’inflazione crescente a causa dell’immissione di nuovo potere d’acquisto (domanda) non controbilanciata da autentici aumenti di produzione (e di offerta). Per contrastare l’inflazione si sarebbe dovuto ricorrere, oltre a manovre monetarie restrittive dello sviluppo produttivo, a crescente pressione fiscale per ridurre il reddito e la possibile domanda (con ulteriori effetti depressivi sulla produzione), ma successivamente, grazie all’aumento del gettito tributario, si sarebbero sostenute ulteriori spese non per incentivare la produzione, bensì la crescita di reddito dei ceti “improduttivi”, e così via. Insomma, si prevedeva che il capitalismo si sarebbe autostrangolato con le spese ritenute improduttive. Secondo le tesi in questione, la classe “veramente” produttiva di plusvalore era sottoposta ad un crescente, insostenibile, sfruttamento per mantenere i “parassiti”; in questo caso, si noti bene, non l’autentica classe dominante grande-imprenditoriale, ma i ceti medi, nient’affatto dominanti per quanto ricchi (e nemmeno così in generale come si è spesso favoleggiato a “sinistra”). I nemici di classe principali sembravano diventare i professionisti e i commercianti, nonché tutto quel ceto intermedio del mondo imprenditoriale, o ad esso legato, che era più strettamente funzionale alle politiche di vendita delle imprese, e all’espletamento di altri servizi in effetti del tutto fondamentali per l’organizzazione, lo sviluppo e la capacità competitiva di queste ultime.
Tali erano i risultati di una teoria ormai largamente obsoleta e incapace di aggiornamento. Con due conseguenze di grande rilievo, di cui il nostro paese è stato un laboratorio abbastanza speciale. Innanzitutto, si è rilevata, persino nelle correnti che si pretendevano rivoluzionarie (si pensi al nostro “operaismo”) una totale incapacità di comprendere la fase attraversata dal capitalismo, e di prevedere il suo nuovo rigoglio all’insegna di una completa vittoria del neoliberismo anche in rapporto al semplice riformismo di stampo keynesiano. La struttura di classe – e i blocchi di potere e quelli sociali legati a certe alleanze di classi – è stata completamente deformata (ed è ancora dir poco) da lenti teoriche che hanno sempre più accentuato lo strabismo, trasformando infine la teoria marxista in pura ideologia: di legittimazione del potere assoluto dell’apparato del partito-Stato all’est, e di desiderio (e sogno) di rivoluzione o di riforma (“di struttura”) del capitalismo all’ovest. L’unico tentativo di riprendere in pugno la situazione almeno dal punto di vista teorico, rivitalizzando pienamente il concetto di modo di produzione capitalistico e mettendo da parte la “teoria contabile” del valore – mi riferisco evidentemente all’althusserismo – è clamorosamente fallito, precisamente perché non si è spinto fino alla comprensione e spiegazione dell’ormai irrimediabile degenerazione e irriformabilità del “comunismo storicamente esistito”, la cui causa decisiva deve essere definitivamente fatta risalire al carattere assolutamente non rivoluzionario (nel senso di non intermodale) del-
1 Crescita e soprattutto arricchimento che non hanno conosciuto, in simili proporzioni, i ceti medi nei paesi “socialisti”, dove pure, come già rilevato nella nota precedente, riterrei non irrilevante la questione di questi ceti, che però non si potevano sviluppare nei settori “privati”, se non in forma del tutto “interstiziale”.
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la classe operaia, in specie quella delle fabbriche costituenti le unità lavorative trasformatrici delle grandi imprese oligopolistiche; classe che invece anche la scuola althusseriana mitizzò oltre ogni limite di ragionevolezza.
La lunga e intensa degenerazione puramente ideologica del marxismo (sia chiaro che io non credo nemmeno che quest’ultimo possa mai essere pura scienza) ha preparato non soltanto il suo affossamento da parte dei “giovani leoni” del “pensiero debole”, ma ha lasciato un sedimento ancora peggiore. Proprio per avere alterato la visione della struttura di classe, per avere insistito su concezioni errate del lavoro produttivo e improduttivo (dove poi quest’ultimo tendeva addirittura a confondersi con il suo carattere inutile o addirittura parassitario, operazione comunque non permessa qualora si fosse avuto un minimo di conoscenza dell’impostazione di Marx al riguardo), è stata di fatto preparata – appunto ideologicamente, come primo passo – quella tipica alleanza odierna tra grande capitale monopolistico, imprenditoriale e finanziario, e gruppi dirigenti dei partiti e sindacati che controllano le attualmente passive e serializzate masse del lavoro dipendente, alleanza di cui è laboratorio principale proprio l’Italia e che consente al grande capitale di porre sotto il suo controllo – tramite gli apparati statali, finanziari, ecc. – grandi quote di ricchezza prodotta dai ceti medi supposti parassitari e indicati, come già detto, quali principali nemici di classe delle masse lavoratrici in questione. Un brillante risultato per le effettive classi dominanti. Un prezioso servigio reso dai suoi più fedeli e sicuri sicari e scherani, che non sono per nulla “traditori” della “Classe Operaia”, ma invece espressione (dirigente) di masse lavoratrici deprivate di qualsiasi cultura di radicale, e soprattutto ben mirata, opposizione anticapitalistica dagli specifici meccanismi (autoriproduttivi) del modo di produzione capitalistico, e dalla dinamica dei rapporti decisivi della formazione sociale ad esso corrispondente nell’attuale fase del suo sviluppo.
4. Nel mentre si producevano questi effetti di (auto)annientamento di una politica e di una cultura seriamente anticapitalistiche, ricrescevano i già sviluppati sistemi territoriali (e nazionali) capitalistici (si pensi al Giappone e all’Europa, in particolare la Germania) – non in termini di potenza militare, ma comunque tecnico-produttiva ed economico-mercantile – e si entrava così in una nuova epoca di policentrismo competitivo intercapitalistico; si verificava inoltre, più recentemente, lo sviluppo di nuovi sistemi capitalistici (o protocapitalistici) in aree prima arretrate, ad es. nel sud-est asiatico, dove l’attuale grave crisi è comunque la prima crisi di tipo capitalistico – che sembra segnalare, almeno in molti paesi, la sostanziale fine del processo di accumulazione originaria – e non più una crisi da sottosviluppo come le precedenti.
La nuova spinta competitiva, interimprenditoriale più ancora che intercapitalistica in senso complessivo, riapre l’epoca, che keynesiani e marxisti davano ormai per definitivamente conclusa, delle grandi innovazioni rivoluzionarie – nei settori dell’informatica, delle telecomunicazioni, dell’aerospaziale, delle biotecnologie, ecc. – che assorbono grandi quantità di capitali (malgrado in certi settori, come l’informatica, tali innovazioni non richiedano poi investimenti a particolarmente alta intensità di capitale) e ridanno fiato allo sviluppo capitalistico, anche se non più con i ritmi tipici dell’epoca monocentrica postbellica, il che crea difficoltà di assorbimento della forza lavoro (soprattutto delle nuove generazioni) o crea occupazione in lavori saltuari, a basso salario, in settori (fra i quali credo debbano essere per l’essenziale annoverati quelli del cosiddetto non profit) a scarso contenuto innovativo e tecnologico, che non sono certo fra quelli trainanti dei sistemi economici, e che quindi non possono dare alcun decisivo contributo nella nuova aspra, e sempre più aspra, competizione – apertasi in un sistema capitalistico ormai rimondializzatosi – ai fini del predominio di questa o quella parte di detto sistema.
Per motivi che ho spiegato con una certa ampiezza negli scritti già citati, si entra in un’epoca di intensa rifinanziarizzazione del capitale, a causa della necessità, da parte delle varie imprese (in specie quelle di grandi dimensioni), di possedere vaste scorte liquide per investimenti di vario tipo (non solo quelli più strettamente tecnico-economici) ai fini dell’aspra competizione policentrica, con l’autonomizzazione del settore finanziario rispetto a quello dell’economia detta reale, il che comporta frizioni tra i due settori e non armonizzazione dei loro interessi e delle politiche in essi
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perseguite dalle varie frazioni delle classi dominanti. Si riacutizza inoltre il problema dello stretto controllo delle grandi imprese da parte di nuclei proprietari (il cosiddetto “nocciolo duro”), con ulteriori frizioni tra questi e i gruppi alto-manageriali che sembravano avere preso il netto, e irreversibile, sopravvento nella fase precedente, e che spesso sono costretti, essi stessi, ad acquisire proprietà azionaria delle imprese da loro dirette per non essere messi in difficoltà, in una situazione di precarietà del loro controllo aziendale1.
La crescente divaricazione tra l’entità delle transazioni finanziarie e quella delle transazioni più propriamente mercantili accentua la fragilità dei circuiti della circolazione (internazionale) del capitale. Nell’epoca monocentrica, il marxismo “sottoconsumistico” continuava ad attendere fideisticamente la crisi (per non dire il crollo) del capitalismo a causa del crescente divario tra aumento della produzione potenziale e accrescimento assai più contenuto della domanda (in specie dei salariati), nel mentre si riteneva che la domanda di investimenti non potesse che essere sempre più debole, e che la “droga” rappresentata dalle spese militari fosse un semplice rinvio della necessaria resa dei conti finale. Lo stesso (presunto) “scambio ineguale” esistente nel commercio tra paesi sviluppati e sottosviluppati, ritenuto causa fondamentale dell’arricchimento dei primi a spese del plusvalore prodotto dalle masse lavoratrici dei secondi, non poteva alla fine che aggravare il divario sopra indicato poiché avrebbe ridotto ulteriormente la possibilità di aumento dei consumi, a causa dell’impoverimento delle popolazioni del Terzo Mondo. Non insisto sulla povertà teorica di questo pseudomarxismo economicistico, giacché il cambio d’epoca ha fatto, da solo, giustizia d’esso riducendolo a sedimento cristallizzato di qualche sparuto gruppetto di sopravvissuti.
Oggi torna invece a riproporsi quella possibilità della crisi, teorizzata fra gli altri da Lenin, legata all’anarchia mercantile, in particolare a quella dei mercati finanziari, cioè alla rottura dei circuiti finanziari cui poi fa seguito, qualora non si riparino in tempo i guasti di questi circuiti, la rottura anche di quelli mercantili a causa della carenza di liquidità soprattutto da parte del sistema imprenditoriale, ma poi anche, evidentemente, degli stessi consumatori “finali”. Certamente, l’anarchia non è quella del capitalismo concorrenziale dell’epoca di Marx, ma è comunque sempre connessa alla riacutizzatasi competizione intermonopolistica tipica di una fase policentrica, come quella esistente nella fase imperialistica analizzata da Lenin. Parlare di possibilità non significa profetizzare la sicura crisi, in questo caso di tipo economico, del capitalismo (e tanto meno tornare a stupide tesi del “crollo”, già tante volte smentite). Tuttavia, mentre, lo ripeto, era praticamente improbabile la crisi da sottoconsumo (o da carenza di investimento rispetto al risparmio) nell’epoca monocentrica di capitalismo relativamente organizzato attorno ad un centro dominante, e in qualche misura coordinatore, rappresentato dal sistema economio-politico-militare degli Stati Uniti, oggi vi sono concrete possibilità di una crisi da “anarchia mercantile”, surdeterminata dalla competitività tipica di una nuova epoca di policentrismo capitalistico. Gli USA restano, e lo saranno ancora per un bel po’ di tempo, il paese e l’economia dominante, ma non più coordinatrice, anzi portatrice di disordine.
Esistono senza dubbio enti interstatali e intergovernativi capaci di un qualche controllo. Tuttavia, ultimamente, si può ben dire che il FMI è stato il vero garante di una certa stabilità pur nel disordine crescente; non si riesce a vedere una funzione altrettanto efficace di altri apparati internazionali, molto spesso semmai più di area che globali come si pretenderebbe (tipo l’area nordamericana, il Nafta, o la costituenda Europa). Ora, com’è logico, l’azione del FMI è stata soprattutto improntata a manovre di tipo monetario e finanziario. Tali politiche riducono drasticamente il reddito, in specie delle classi subordinate, nei paesi in crisi e sottoposti a “tutela” (tipico quel che sta avvenendo nel sud-est asiatico). E tale riduzione potrebbe poi creare una crisi che verrebbe allora interpretata come classica crisi di sovrapproduzione o sottoconsumo (termini fra loro evidentemente correlativi). Da
1 L’estrema diffusione e dispersione della proprietà azionaria – cui ha dato ulteriore impulso il processo di cosiddetta privatizzazione di imprese pubbliche, in corso in particolare nel nostro paese – fa si che oggi piccole quote di tale proprietà (a volte persino inferiori al 5%) siano già sufficienti ad esercitare un discreto controllo dell’impresa o sistema di imprese connesse da holding finanziarie, ecc. E’ qui impossibile anche solo accennare ai multiformi sistemi di privatizzazione utilizzati nei paesi del fu socialismo (di particolare interesse sembrano ancora una volta quelli che si stanno svolgendo in Cina), che indubbiamente fanno ormai parte, a pieno titolo, del processo di rimondializzazione (policentrica e acutamente interconflittuale) del sistema capitalistico.
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qui il tentativo di ripresa di correnti neokeynesiane che criticano aspramente lo sfrenato liberismo attuale e che hanno, fra i loro organi più dignitosi, Le monde diplomatique
Non vi è dubbio che, una volta che scoppiasse una reale crisi economica di particolare gravità (non la solita “recessione”), tutti i vari fenomeni si interconnetterebbero fra loro e si autoalimenterebbero: crisi di liquidità, caduta degli investimenti, disoccupazione e riduzione salariale, diminuzione della domanda, sovrapproduzione, ecc. ecc. Tuttavia è decisivo rendersi conto di qual è la “causa ultima” (o “prima”, a seconda di come si guarda alla sequenza causale) della possibile crisi. Se si pensa da keynesiani (anche se poi tutti dichiarano di esserlo in modo nuovo, tenendo conto della nuova situazione, ecc.), si crede che sia sufficiente invertire la tendenza liberale odierna, tornare all’intervento statale che sostiene la domanda e che svolge una certa attività di organizzazione e coordinamento dei mercati capitalistici, con controllo delle spinte “anarchiche” connesse alla conflittualità interimprenditoriale, come fosse possibile invertire il passaggio dall’epoca mono a quella policentrica, e quindi frenare quella necessità di grandi investimenti di tipo competitivo (in ricerca e nuove tecnologie, in controllo e influenza sugli apparati politici, ideologici, di comunicazione di massa, ecc.), cui è strettamente connessa la finanziarizzazione del capitale e la divaricazione tra gestione finanziaria e produttiva.
Se si considera la causa della potenziale (e “immanente”) crisi in termini di “anarchia” interconflittuale policentrica, con disordine crescente pur contrastato da tentativi sempre meno riusciti di riordinamento, l’attenzione non può più essere rivolta, o comunque non principalmente, al semplice controllo delle leve statali per metterle in azione in funzione anticrisi; bisogna comprendere che i meccanismi “impersonali” del sistema, nella loro specifica dinamica legata alla nuova fase (ricorsi-va) del capitalismo, fanno emergere come gruppi dominanti, e nemici principali per ogni “entità” che si ponga finalità anticapitalistiche, quello che ho indicato (sempre negli scritti già citati) come complesso imprenditoriale e finanziario. I nemici sono i vari “Agnelli” delle varie sezioni interconflittuali di detto complesso, non il notaio, il commercialista e il bottegaio dietro l’angolo di casa nostra. Contro questi ultimi si può solo rivolgere l’astioso e invidioso “risentimento” (in senso vagamente nietzschiano) di masse di tipo “mugellano”; contro i primi si deve rivolgere l’azione cosciente (e la cui coscienza implica anche un “freddo e razionale” odio) di chi sa ancora fare un minimo di analisi, derivata dal marxismo, degli autentici blocchi di potere e delle costellazioni di raggruppamenti sociali, e delle forze politiche, che li appoggiano nel loro dominio (chi consapevolmente e chi inconsapevolmente, ma in modo altrettanto colpevole e che non va più giustificato in alcun modo).
5. Soltanto un’ultima considerazione, per completare il quadro generale entro cui poi ricondurre l’azione delle varie forze in campo nel nostro paese. E’ oggi di moda parlare della fine della funzione degli Stati nazionali, ormai esautorati della loro sovranità dall’azione globale del grande capitale, in specie finanziario, nell’intero mercato mondiale. Tale dominio incontrastato del grande capitale privato – presunto nuovo stadio del capitalismo dopo quello, che doveva essere l’ultimo, del capitalismo monopolistico di Stato (sempre per ricordare l’imbecillità di certo marxismo economicistico) – è responsabile dell’affermarsi delle correnti neoliberali (il pensiero detto “unico”) e dei rischi di grandi sconvolgimenti economici, oltre quelli ecologici e altri ancora. Limitandosi a questa parziale verità, si può ancora una volta dare la stura a progetti vari di rivitalizzazione dell’azione statale, non più a livello nazionale ma nell’ambito dei già esistenti o di nuovi possibili enti internazionali, in modo da riorganizzare il sistema1 e tagliare le unghie al capitale “peggiore”, parassitario, cioè quello finanziario, che evidentemente si pensa come separabile, nella sua azione, da quello produttivo di tipo “virtuoso”.
Che capitale produttivo e capitale finanziario si autonomizzino, entro certi limiti, fra loro e possano conoscere anche reciproche conflittualità e frizioni, l’ho già più volte sostenuto nei miei lavori.
1 Al proposito è paradigmatico l’interessante, ma non bello e tanto meno positivo, libro di Hirst e Thompson, La globalizzazione dell’economia, Editori Riuniti Roma 1997, che non a caso è stato accolto con favore da certi settori della “sinistra”, che pretendono ancora di poter riformare e riorganizzare il sistema capitalistico delle grandi imprese in acuta competizione.
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Che essi siano separabili, sopprimendo la funzione dell’uno ed esaltando quella dell’altro, è la solita utopia “borghese” che non ha nemmeno più il pregio della novità, tante volte ormai è stata riproposta e altrettante volte smentita clamorosamente. Aspetti produttivi e finanziari si riavvicinano, senza mai fondersi, nelle epoche monocentriche di relativa organizzazione capitalistica, e si divaricano in misura crescente nelle epoche di accentuata ripresa della conflittualità intercapitalistica, in specie interimprenditoriale (e, in particolare, tra grandi colossi monopolistici). Ma il legame tra i due aspetti non può essere reciso, se non appunto, per un certo periodo, da crisi di grande gravità.
Quanto alla fine della funzione degli Stati, tale tesi nasce da una errata prospettiva e da una errata considerazione teorica. La prima è legata al fatto che, attualmente e a differenza di quanto avvenne durante la precedente epoca policentrica dei primi decenni del secolo, esiste un unico grande Stato dotato della potenza (anche “di fuoco”) necessaria ad affermare tutte le varie prerogative che hanno di solito gli Stati nazionali. E’ allora logico che tutti gli altri Stati appaiano esautorati delle loro funzioni, e che sembrino agire nel mondo solo le grandi frazioni del complesso imprenditorialfinanziario in competizione fra loro. Ma lo Stato USA agisce, eccome! E la sua potenza è di tale entità che, pur essendo entrati in una nuova epoca policentrica, questo paese ha ancora una buona prevalenza rispetto agli altri sistemi capitalistici anche in campo tecnico-produttivo e finanziario (e innovativo). Esso non costituisce più il centro di un sistema relativamente coordinato, la sua azione di predominio crea oggi disordine, non sia pure parziale organizzazione come avveniva un tempo. Ma lo Stato USA agisce, eccome!
L’errore teorico è altrettanto significativo. Si confonde generalmente la fine dello Stato con la fine, o quanto meno la forte tendenza all’esaurimento, delle funzioni sociali del Welfare State. Non sono per nulla finite altre funzioni dello Stato. Si nota anche la definitiva obsolescenza di quelle tesi che un tempo, già allora con una notevole deformazione della realtà dei rapporti fra le varie istanze e apparati della formazione sociale capitalistica, sostenevano l’“autonomia del politico”, più precisamente la dominanza degli “apparati ideologici di Stato” nell’ambito di detta formazione sociale. Oggi si può facilmente constatare come sia tornata prevalente, anche ammettendo che prima non lo fosse più, la sfera economico-finanziaria, nell’ambito della quale si vanno enucleando i decisivi blocchi di potere. Gli Stati hanno però un’importanza notevolissima nella formazione, e mantenimento, delle rappresentanze politiche di detti blocchi e nella costituzione, più magmatica e meno organizzata, dei blocchi o alleanze tra ceti sociali che hanno funzione di “cinture di sicurezza” nei confronti del potere delle “classi” dominanti. Senza poi considerare il più tradizionale monopolio della forza di coercizione e repressione, risorsa d’ultima istanza di tali “classi”.
Semmai, quello che fa problema è l’incapacità non semplicemente degli altri Stati, ma delle varie frazioni del complesso imprenditorial-finanziario dominante, diverse da quella statunitense, di rafforzare le proprie capacità competitive di tipo tecnico-produttivo ed economico-finanziario con quell’esercizio di potere d’ultima istanza che caratterizza gli apparati statali. Il neoliberismo dilagante è in realtà il sintomo più preciso del sostanziale servilismo, e dunque di un certo complesso di inferiorità nella competizione, delle classi dominanti europee, giapponesi e altre; esattamente come il liberismo ottocentesco e la teoria ricardiana del libero commercio internazionale erano mirabilmente funzionali al monocentrismo dominato dall’Inghilterra. Oggi, la cosiddetta sinistra sta creando, specie in Europa (ed anche qui il nostro paese rappresenta un paradigma), dei regimi particolarmente favorevoli alla penetrazione ideologica del grande capitale statunitense e alla immediata genuflessione non appena esso butta sul piatto della bilancia “la spada di Brenno” (non ci si lasci troppo ingannare da certi recenti “successi” dell’ONU nell’imbrigliare, momentaneamente, l’azione anti-irakena degli Stati Uniti).
Di fronte a questo servilismo di “sinistra”, esistono concreti pericoli che, in tempi non certo brevi, la parola d’ordine di un minimo di indipendenza e dignità nazionale (o d’area) venga lanciata da ben altre forze e con ben altri intendimenti, che saranno quelli di consentire la definitiva apertura di un’epoca di effettiva, e a tutto campo, conflittualità intercapitalistica, tra le varie frazioni della classe dominante mondiale. Per il momento, la teoria leninista dell’imperialismo – sfrondata delle tesi dell’ultimo stadio del capitalismo e dell’imminenza della rivoluzione proletaria mondiale – funzio-
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na ancora benino nello spiegare l’aspra concorrenza tra giganti monopolistici e la crescita d’importanza del capitale finanziario (anche qui lasciando perdere la tesi del puro parassitismo della classe dei rentier come presunta classe dominante dell’epoca), con l’accentuarsi della fragilità dei circuiti delle merci e del denaro (e dei titoli rappresentativi della proprietà di questo e di quelle). Un domani, di fronte alla latitanza di forze che finalmente eleggano a loro nemico principale – economico, politico e ideologico – le varie frazioni del complesso imprenditorial-finanziario, potrebbe rinverdirsi anche la quinta caratteristica della teoria leniniana dell’imperialismo: quella della effettiva terza guerra mondiale tra potenze per la spartizione del mondo e per la prevalenza di una di esse in funzione dell’apertura di una nuova epoca di tipo monocentrico.
Su questo sfondo generale potrà inserirsi, nella seconda parte, il discorso sulla situazione italia-
na.
Conegliano marzo 98   (continua)
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