VERSO PROSPETTIVE RADICALMENTE NUOVE

UN NUOVO METODO DIALETTICO

Voglio esprimere la piena solidarietà al popolo libico in rivolta per la democrazia e la libertà. Con questo spirito stiamo partecipando alla manifestazione indetta per oggi alle 12 davanti all’ambasciata libica da esponenti della comunità libica in Italia e tutt’ora in corso. E’ una vergogna che il governo italiano non faccia nessuno pressione al fine di fermare la repressione in Libia. Evidentemente gli affari con Gheddafi di Berlusconi sono stati migliori del previsto1 (Paolo Ferrero, 21/02/2011)

Come si evince dal contenuto di tale comunicato ufficiale, è chiaro che non sogniamo quando sosteniamo che questa sinistra, moderata o radicale che possa essere, in ogni occasione decisiva sul piano della politica internazionale, rappresenta la potenziale falange “colorata” dell’atlantismo. Al di là delle spiegazioni storico-teoriche sul percorso del comunismo italiano – per cui rimando all’illuminante percorso dialettico descritto più volte da Gianfranco La Grassa, in merito al cambiamento di campo dei comunisti (o presunti tali) italiani, e delle dinamiche interne al PCI tra gli Anni Settanta e gli Anni Novanta – è opportuno e doveroso sottolineare come il linguaggio utilizzato da questi partiti mescoli in una melmaglia indistinguibile, un frasario simil-maoista, dosi di terzomondismo hollywoodiano e ipocrisia umanitaria della peggiore specie. Quel fantomatico popolo libico evocato da più parti, non è mai esistito. Ormai è chiaro: in Libia, gruppi armati della Cirenaica, abilmente sostenuti da mercenari esterni, hanno tentato un golpe politico per secedere la regione, ricca di petrolio, dal resto della nazione.

Senza andare ad indagare nei meandri dell’intelligence, sul piano prettamente politico sarebbe stato sufficiente chiedersi da dove provenissero quelle bandiere mostrate dai ribelli e quale fosse il loro esplicito riferimento storico: la bandiera nero-verde-rossa è la bandiera della monarchia libica di Re Idris, esistita dal 1951 al 1969, anno in cui il regno cadde sotto i colpi delle rivolte panarabe e della rivoluzione di Gheddafi, innescata principalmente dalla condizione di vassallaggio cui il Paese era sottoposto in conseguenza dei privilegiati rapporti petroliferi e militari instaurati con Stati Uniti e Gran Bretagna. Queste bandiere sono comparse in grande quantità anche in Italia, esattamente lo scorso 23 febbraio, quando un migliaio di persone si sono ritrovate di fronte all’Ambasciata della Repubblica Araba di Libia Popolare e Socialista a Roma, dispiegate ed affiancate a quelle della Federazione della Sinistra, del Partito Comunista dei Lavoratori guidato dall’ex parlamentare di Rifondazione Comunista Marco Ferrando, e di Sinistra Critica, formazione politica riconducibile all’ex parlamentare di Rifondazione Comunista, Franco Turigliatto2.

 

Con quel triste episodio abbiamo finalmente assistito all’emersione definitiva di tutto il qualunquismo e della retorica che attanaglia questi ambienti politici, autentici gruppuscoli di vetero-sessantottardi incalliti, che non si arrendono di fronte al fallimento storico delle loro utopie. Alla squadriglia dell’anti-gheddafismo si è subito nei fatti unita un’ulteriore folta schiera di figuri, sedicenti antimperialisti, marxisti-leninisti quando non maoisti, che – probabilmente ancora mentalmente fermi ai tempi in cui appiccicavano centinaia di dazebao nei muri delle aule scolastiche o universitarie – hanno voluto riproporre il solito semplicistico schemino duale della lotta di classe (imparato e recitato ad libitum quasi come le tabelline aritmetiche) applicato al quadro delle dinamiche esistenti nello scacchiere internazionale, con la solita spaventosa supponenza. Nel nome delle masse e dei popoli – benché inesistenti in questi termini ed assolutamente frazionati al loro interno – tutto è giustificabile, e dinnanzi ad una guerra civile di carattere locale/secessionista, come quella che sta colpendo la Libia, il criterio di classe da essi applicato per stabilire quale sia la parte giusta, è evidentemente sempre e soltanto quello occidentale, alla fine dei conti – non si sa perché – comunque quello più attendibile. Volendo evitare querele o denunce, non possiamo certo affermare così, su due piedi, una presunta malafede, e dunque ci limitiamo ad osservare come certe parrocchie siano semplicemente fossilizzate nel campo della liturgia, anziché della politica, della religione anziché della scienza sociale.

Se una lezione fondamentale Mao ha lasciato, sicuramente è quella relativa alla contraddizione e alla capacità di differenziazione tra la contraddizione principale e le contraddizioni secondarie interne ad una società, e sull’importanza della condizione che l’analisi di queste ultime sia sempre delineata in funzione della prima3. Allo stesso modo, erano stati sia Lenin, con le considerazioni sulla guerra4 e sull’imperialismo5, sia Stalin, con le riflessioni sulla questione nazionale6, ad introdurre dei primi parametri di relatività dei conflitti, in funzione dell’inevitabile interconnessione tra il tempo storico dello sviluppo capitalistico e lo spazio internazionale di espansione dei mercati. Pur restando all’interno di una dialettica prettamente marxista, emersero già tra gli Anni Venti e gli Anni Trenta abbozzi teorici pronti a fornire le basi per una nuova epistemologia, per un nuovo approccio metodologico capace di sviluppare il paradigma dell’analisi dei rapporti di produzione sino ad una più ampia riconsiderazione dei rapporti di forza (nazionali ed internazionali), adattando le necessità di quella che all’epoca era pensata come lotta di classe tra borghesia e proletariato, al nuovo ordine che si andava delineando dopo l’era coloniale
, ormai destinata al tramonto in coincidenza del declino dell’Europa, avviato dalla Prima Guerra Mondiale (1916: stagnazione di trincea e logoramento bellico, 1918: diatribe irrisolte, definitiva proiezione strategica degli Stati Uniti ed emersione del Giappone sullo scenario mondiale, 1919: Trattato di Versailles, con umiliazione della Germania e frammentazione del dissolto Impero Austro-Ungarico) e definitivamente sancito dalla Seconda Guerra Mondiale (1941: Operazione Barbarossa, 1943: frammentazione continentale, 1944: intervento statunitense, 1947: Piano Marshall, 1947-1948: espansione della sfera d’influenza sovietica, 1949: fondazione del Patto Nord-Atlantico, 1955: fondazione del Patto di Varsavia).

La differenza tra il colonialismo e l’imperialismo apparve netta, proprio a partire dalla diversa percezione geopolitica globale. Ad affrontarsi erano ormai Stati-nazione e potenze in genere, coinvolgendo l’intero pianeta, quasi senza eccezione, all’interno delle dispute. Gli Imperi dediti ad interventi completamente a-simmetrici in terre di conquista da esplorare e “civilizzare”, e da inglobare all’interno del proprio Commonwealth, stavano per scomparire, con la sola eccezione della Gran Bretagna, in ogni caso enormemente ridimensionata nei venti anni tra le due Guerre. Se la Prima Guerra Mondiale, si era conclusa dunque con l’auto-distruzione dell’Europa, con la nascita del primo Stato di ispirazione marxista sul pianeta (1917) – stranamente emerso non dalle viscere di una potenza capitalistica europea frammentata e disgregata, ma nella ben più arretrata e agricola Russia – e con la fondazione della Terza Internazionale (1919) – episodio chiave nella storia del XX secolo, per la funzione di netto rilancio della lotta contro il capitalismo nell’intero globo –, la Seconda Guerra Mondiale si conclude con un’anomalia ben più impressionante: l’affermazione su scala mondiale di una potenza comunista, come risultante storica della linea staliniana del Socialismo in un solo Paese. Questo Paese era l’Unione Sovietica, e sia sul piano teorico sia su quello pratico, la sua natura interna si muoveva ormai abbastanza palesemente tra un netta continuità etno-linguistica7 e geopolitica8 con l’Impero Russo, ed una particolare, inedita natura di Stato socialista ispirato al marxismo-leninismo. Mosca dunque diventò, nel frasario sovietico, sia la capitale dell’eterna Madre Russia, sia il tempio del Socialismo Internazionale. Sul campo di questa dualità politica e semantica (non necessariamente contraddittoria) si è sostanzialmente giocata tutta la dialettica della Guerra Fredda, sin dai suoi primi momenti. Come afferma Gianfranco La Grassa nel suo ultimo elaborato Ricordare per andare oltre del 30 maggio scorso,

La reazione del partito, con la caduta di Krusciov, non liberò per null’affatto nuove energie. È del tutto errato pensare che Brezhnev rappresentasse la ripresa dello stalinismo, d’altronde non più attuale; a meno di non ammettere, in base ad una nuova analisi del tutto prematura all’epoca, che non di costruzione del socialismo si era trattato, ma di mera creazione di una grande potenza. Bisognava capire che Stalin era stato un grande uomo di Stato, non un grande comunista; nemmeno però uno che aveva commesso solo delitti, cui vennero accollati gli insuccessi ormai maturati dopo i primi grandi balzi di una ‘accumulazione originaria’ accelerata. Nulla di tutto quanto fu detto al XX Congresso del Pcus (1956) era vero. D’altronde, a nessuno poteva venire in testa a quell’epoca che la Rivoluzione d’ottobre aveva preso, come accade sempre nella storia, una strada diversa da quella che si credeva d’aver scelto

La strada intrapresa, dunque, fu diversa da quella che si credeva d’aver scelto. Si ipotizzò infatti l’instaurazione del socialismo attraverso la presa del potere da parte delle classi operaie e contadine, sino alla progressiva riduzione politica del ruolo dello Stato, per giungere ad un vero e proprio semi-Stato9, che garantisse l’edificazione di una società socialista capace di imporre le condizioni politiche ed economiche per l’abbattimento dei rapporti capitalistici di produzione e di scambio e di fornire il supporto ideologico, strategico e organizzativo agli analoghi sussulti internazionali, con lo scopo di pervenire alla rivoluzione mondiale e dunque al comunismo. Tutto ciò, nei termini qui posti, non avvenne. Perché? Cosa era accaduto? Come ricorda Marco Montanari, nella prefazione a Stato e Potenza di Gennadj Zyuganov, nel 1939 Josif Stalin “sostenne l’esistenza di una elaborazione incompleta e insufficiente di alcune tesi generali della dottrina marxista dello Stato10, tanto che lo stesso concetto politologico evocato da tale definizione, “nell’arco di due decenni, aveva dunque subito profondi mutamenti agli occhi dei bolscevichi: da residuo borghese destinato al deperimento, a strumento della rivoluzione, e infine ad incarnazione del trionfo del socialismo11. Un tale riposizionamento, perciò, non può trovare spiegazione in precise responsabilità personali, come andava di moda fare all’epoca, in stile quasi militaresco ed intimidatorio (il revisionista Tizio, il rinnegato Sempronio ecc. …), quanto piuttosto può spiegarsi all’interno di un moto storico evolutivo e perpetuo che impone le sue tendenze e le sue dinamiche anche di fronte alla più universale delle dottrine, persino lungo i passaggi effettivamente epocali della nostra vicenda umana. Questo non significa che non esistessero personaggi che hanno rappresentato una deviazione pericolosa e tendenziosa rispetto alla linea politica e strategica dello Stato Sovietico, ma semplicemente che questi siano storicamente da riconsiderare come traditori o boiardi dell’URSS, e non come rinnegati/revisionisti rispetto alla fantomatica causa del fantomatico socialismo internazionale, ben diverso dal vero e concreto socialismo internazionale realmente evidenziatosi nella sua quasi esclusiva funzione (per altro strategicamente fondamentale) di collegamento a rete tra i partiti comunisti dei vari Paesi del mondo e tra i governi dei Paesi socialisti.

Per il resto, le critiche e le riletture nate sul tema marxista-leninista in molti Paesi del cosiddetto campo socialista, hanno dato origine a sviluppi politico-economici sicuramente diversi da quello sovietico: la Cina fu un esempio lampante, una nazione che quasi in ogni frangente del secondo dopoguerra ebbe almeno una motivazione per scatenare polemiche a ripetizione contro Mosca, prima con Mao Zedong, poi con Zhou Enlai, poi con
Liu Shaoqi, poi ancora con Mao, poi con Lin Biao e con la rivoluzione culturale in generale, poi con Deng Xiaoping. La Federazione Jugoslava invece, con Tito, si contrappose subito in modo abbastanza netto a Stalin e all’Unione Sovietica, sin dal 1948, tirandosi fuori da ipotetiche annessioni all’interno del Patto di Varsavia ed avviando un modello economico temperato da aperture al mercato. La Corea del Nord, invece, sviluppò lo Juche, una filosofia politica di derivazione marxista-leninista ma del tutto immersa all’interno della cultura coreana e, più in genere, di una mentalità contemporaneamente guerriera ed armonico-collettivistica, tipicamente orientale (come, d’altronde, fu anche per alcuni scritti di Ho Chi Minh, e per molte opere di Mao Zedong o per lo stesso Libretto Rosso, malgrado il corposo frasario marxista-leninista potesse indurre a pensare ad una mera ed esclusiva ripresa dei temi del leninismo rigidamente applicati alla realtà delle rispettive società).

L’INEVITABILITA’ DEI RAPPORTI DI FORZA INTERNAZIONALI

Lo scontro tra Urss e Cina ha riempito, come poche altre diatribe, oltre venti anni di riflessione e analisi, soprattutto nel variegato panorama marxista europeo e nord-americano, dove il dibattito ha spesso raggiunto livelli e picchi di isteria e distorsione ideologica senza precedenti. Chiaramente, allorquando fu la rivoluzione culturale cinese ad infiammare lo scontro tra Mosca e Pechino, i sussulti giovanili furono tutti a favore della Cina, perché mentalmente ritenuta vicina. Al di là di rari casi, fu per lo più una tendenza del tutto generazionale (e se vogliamo, anche di moda), a spingere diverse migliaia di ragazzi verso le ragioni di quel fermento politico, in realtà composito al suo interno, indirizzato alla conquista del potere politico nel Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese, e per nulla riconducibile alla trita retorica delle masse e dei popoli evocata dalla Contestazione nelle piazze di Roma, Parigi o Madrid. La Cina si era “levata in piedi” – come disse Mao – nel 1949 e da allora ha sempre inseguito un affannoso tentativo di affermazione mondiale, un legittimo senso di rivalsa storica, essenzialmente innescato dal cosiddetto secolo delle umiliazioni (1840-1949). Come evidenziato da più studi, il nazionalismo cinese è un sentimento, ancorché un’ideologia vera e propria, che accompagna la popolazione dell’Impero di Mezzo da moltissimo tempo: la continuità rivendicata da tutti i leader comunisti cinesi, senza sostanziali distinzioni, con il moto rivoluzionario di Sun Yat-sen, dimostrava già la portata storica, densa di significati, della rivoluzione comunista nella Cina dell’epoca. All’idea di sollevazione e lotta di classe contro la reazione interna (vecchi burocrati, ala destra del Kuomintang, latifondisti) si aggiungevano la lotta senza quartiere contro il colonialismo (britannico, francese e portoghese) e contro l’imperialismo (giapponese), che avevano vessato ed umiliato un popolo intero per circa dieci decadi. Nel giro di soli cinquanta anni (1900-1950), la storia ci ha mostrato tre diverse Cine: l’ultima fase della Cina dei Qing, la Repubblica di Cina e la Repubblica Popolare Cinese. Sarebbe bastato poco, dunque, per comprendere non solo gli elementi di discontinuità, ma anche e soprattutto quelli di continuità che ne forgiarono palesemente le trasformazioni sociali. Eppure si preferì pensare che le crisi tra i due Paesi o le polemiche innescate in Cina dalle colonne del Quotidiano del Popolo (come quella delirante del 1969 nell’opuscolo Leninismo o social-imperialismo? in cui si arrivò quasi a paragonare l’Urss di Breznev alla Germania nazista), fossero frutto di un confronto puramente ideologico. Non si vide (o non si volle vedere) che ad ogni contrasto ideologico tra i due Paesi corrispondeva una (quasi) contemporanea crisi internazionale, capace di sconvolgere gli equilibri geopolitici in Asia.

Quando la Cina invase l’India nel 1962 (alla faccia del cordiale clima di cooperazione afro-asiatica, mostrato a Bandung appena sette anni prima), occupando la piana dell’Aksai Chin (un importante snodo strategico tra Tibet, Pakistan e India, tutt’ora conteso), ed appena due anni dopo (1964) ottenne la sua prima bomba nucleare, fu chiaro che Pechino, malgrado le intenzioni verbali e i proclami terzomondisti, voleva partecipare ad un gioco da cui si sentiva ingiustamente tagliata fuori. Il livore mostrato in uscite pubbliche al vetriolo o in documenti assolutamente alienanti, come la famosa teoria dei Tre Mondi, non avrebbe avuto alcun senso, se non quello di voler dimostrare all’Unione Sovietica e al mondo intero, le proprie capacità autonome e indipendenti. Nel 1966, scoppia la rivoluzione culturale: Mao inizialmente la appoggia in pieno e ne strumentalizza i temi politici per attaccare nuovamente l’Unione Sovietica, che durante un importante vertice tra i governi di Mosca e Ulanbaatar, aveva appena concluso un accordo ventennale di cooperazione, assistenza reciproca ed amicizia, ad ulteriore riconferma della tradizionale e strategica alleanza con la Repubblica Popolare di Mongolia (sempre rivendicata, quale protettorato della Mongolia Esterna, dai settori più irredentisti del nazionalismo cinese, ivi compresi alcuni esponenti del PCC), dove furono stanziati diversi missili balistici e centomila unità dell’Armata Rossa.

Dopo l’intervento militare condotto dall’alleanza del Patto di Varsavia a Praga, per sedare il tentativo di golpe avviato da Dubcek, la reazione del mondo intero fu chiaramente pronta alla condanna di quello che ormai, anche agli occhi di molti sedicenti comunisti, era diventato l’“Impero del Male”, sino a condizionare molti dei giudizi interni al campo socialista. L’Albania di Enver Hoxha esce definitivamente dal Patto di Varsavia (smentendo tutti coloro che da Ovest indicavano questi Stati come meri satelliti di Mosca), la Romania vi resta ma rimane critica nei confronti delle modalità di intervento, e la Cina strumentalizza l’episodio per rinfocolare la polemica anti-sovietica, che appena un anno dopo, nel 1969, degenererà sino allo scontro a fuoco presso i confini sino-sovietici segnati dal fiume Ussuri, lasciando il mondo esterrefatto: l’ipotesi della terza guerra mondiale, sino a quel momento sempre preventivata come potenziale escalation dello scontro bipolare, da allora cominciò ad assumere connotati diversi e inaspettati, non potendo più escludere nemmeno una possibile ed irreversibile crisi su larga scala tra URSS e Cina. Quando nel 1971, in piena Guerra del Vietnam, Henry Kissinger compirà alcuni viaggi in Cina per preparare la visita di Nixon dell’anno successivo, Pechino era già pronta a fare il suo ingresso al Consiglio di Sicurezza dell’Onu come quinta potenza mondiale riconosciuta nel consesso internazionale del Palazzo di Vetro, e le triangolazioni con gli Usa e il Pakistan, rispettivamente in chiave anti-sovietica ed anti-indiana, rispondevano, volente o nolente, a precise strategie che de facto ridussero la Cina a mero strumento di disturbo nella logica del containment americano, senza che probabilmente i dirigenti della nazione asiatica se ne fossero pienamente resi conto. Stessa cosa avvenne quando nel 1979, a quattro anni dalla caduta di Saigon, la Cina improvvisamente invase per circa trenta giorni il territorio vietnamita, in funzione di avvertimento e monito dopo l’intervento militare di Hanoi contro la Cambogia di Pol Pot, ma sop
rattutto nel culmine della tensione creatasi in seguito all’ingresso del Vietnam nel Comecon lungo il 1978.

La Cina degli Anni Settanta era una potenza incompleta: aveva l’ordigno nucleare (un biglietto da visita insostituibile durante la Guerra Fredda), una popolazione prossima al miliardo ed un territorio gigantesco dalle vaste potenzialità, ma versava ancora in uno stato estremamente arretrato e prevalentemente agricolo. Le innegabili conquiste sociali e politiche di Mao, oltre al rinnovato prestigio internazionale acquisito, comunque non potevano in alcun modo impensierire Washington, a differenza di quanto invece sta accadendo oggi, dove lo sviluppo clamoroso a seguito dell’avvio delle cosiddette Quattro Modernizzazioni, sta confermando Pechino sul tetto dei grandi della Terra.

Nessuna condanna può essere emessa dinnanzi alle legittime aspirazioni cinesi a ritagliarsi una propria autonoma sfera d’influenza e tanto meno di fronte a qualsiasi forma di sano nazionalismo, purché questo si limiti al patriottismo e alla lotta per l’indipendenza, senza mai sfociare in forme di imperialismo e di aggressione unilaterale, come invece potrebbero tranquillamente essere considerate l’invasione ai danni del Vietnam nel 1979 o l’illegittima rivendicazione del territorio mongolo. Detto ciò, tutti questi episodi ripropongono una questione centrale: tutto ciò ha forse qualcosa a che fare con il confronto ideologico? No. Eppure si preferì ricondurre tutto a quello, riponendo da parte le ben più concrete e dinamiche trasformazioni geopolitiche e geostrategiche nell’alveo della Guerra Fredda e dello schema bipolare in generale.

IL COMUNISMO COME PROCESSO STORICO ESAURITO

In Occidente, soprattutto dopo il 1956, in forza del ridicolo Rapporto Segreto di Kruscev (un tradimento personale ancorché politico), e dopo il 1968, prevalsero – è inutile precisare e distinguere all’infinito – le tesi ideologicamente definite quali trotzkiste e i loro derivati: quelle secondo cui, con l’ascesa al potere di Stalin, si sarebbe assistito ad una supposta involuzione delle conquiste dell’Ottobre e all’emersione di una fantomatica “opprimente burocrazia” in seno al movimento marxista, diffusasi a pioggia in tutti gli altri Paesi Socialisti ispiratisi al modello sovietico. Tali critiche saranno riecheggiate, pur in diverse forme, per decenni e a più riprese dalle invettive contro i presunti “privilegi” dell’immancabile “élite dirigente”, della “gerontocrazia”, della “nomenklatura” e così via: critiche, qualche volta persino parzialmente condivisibili, ma nei fatti mai costruttive, evidentemente formulate secondo binari anarcoidi, utopistici e privi di qualunque consistenza dialettica scientifica, storica e politica. Zyuganov, principale leader comunista russo dei nostri giorni, ha sottolineato come tutta questa serie di questioni non intendessero e non intendano colpire le reali degenerazioni del potere politico e burocratico, ma semplicemente nascondano, in realtà, una profonda menzogna, mirata alla distruzione della natura stessa della Russia, proprio nella misura in cui “l’Impero è la forma di sviluppo dello stato russo storicamente e geopoliticamente obbligata12. Cosa significa dunque l’idea di potenza nel territorio ex sovietico? In quale misura il carattere continentale e poli-etnico dell’immenso territorio imperiale dominato da Mosca poteva incidere sull’analisi marxista della società russa, pensata da Lenin e Stalin? E in che modo la teoria di Marx ed Engels – in origine elaborata anzitutto a partire dalle condizioni presenti nel mondo occidentale del XIX secolo – poteva trovare concreto riferimento all’interno di una realtà eternamente sospesa (quasi in ogni suo aspetto) tra Europa ed Asia, senza essere sostanzialmente riconducibile né all’una né all’altra? E, in seconda battuta, in che misura la teoria elaborata da Lenin avrebbe presentato un carattere internazionalmente valido, anche qual’ora essa fosse stata privata delle considerazioni contestuali e particolari?

Senz’altro il messaggio dell’Ottobre fu universale nel senso autentico del termine, come lo furono nel passato l’idea di civiltà giuridica dell’Impero Romano o l’idea di armonia diplomatica di Bisanzio. Ma Mosca si fregiò in tal senso del ruolo di “culla del comunismo” o piuttosto del titolo di Terza Roma evocato dal monaco ortodosso Filoteo nel XV secolo? Non è semplice rispondere, ed indubbiamente c’è del vero in entrambe le alternative, esse non si escludono, del resto non potrebbero mai farlo. Il punto è che, al di là del carattere convenzionalmente oggettivo della (per altro fondamentale) analisi scientifica che l’economia e la politica necessariamente richiedono, qualunque cambiamento storico – anche la più radicale rivoluzione sociale – si innesta sempre all’interno di un preciso spazio geografico (nazione, Impero, Stato…), forgiato dai millenni e dai secoli, senz’altro in lenta, continua trasformazione pur tuttavia, in sé peculiare e irriducibile (per usi, costumi, lingua e vicenda storica) a qualunque altra realtà. Non possiamo perciò porci – come spesso è avvenuto in passato – dinnanzi alla complessità strutturale del mondo, con il superficiale (ed illusorio) metro di giudizio dell’appiattimento economicista e del livellamento cosmopolita, senza andare incontro ad un ineludibile fallimento nell’analisi.

La storia, difatti, si compone non solo della pur essenziale dimensione cronologica (nella mera accezione cronachistica di “corso degli eventi nel tempo”), ma anche di una dimensione geografica, che pone necessariamente l’imperativo metodologico di ragionare in termini spaziali, di considerare le trasformazioni sociali, dunque i conflitti e le strategie, come le risultanti non solo di tendenze storiche ormai “mature” per affermarsi, ma anche di precisi calcoli e riflessioni degli uomini, a partire dai tanti e molteplici gruppi dominanti di ogni epoca e di ogni luogo del pianeta. La direzione storicamente seguita dal cosiddetto comunismo, o, per meglio dire, dalle forze politiche ispiratesi alle teorie scientifiche di Marx, Engels e Lenin, ha imposto anch’essa dei gruppi dominanti: il proletariato, nell’idea di Marx e di Engels, avrebbe conquistato il dominio della nazione di appartenenza13, mentre l’avanguardia rivoluzionaria, nella previsione di Lenin, avrebbe costituito il gruppo d’elite dei quadri dirigenti politici e militari, al fine dell’affermazione delle classi lavoratrici all’interno dello Stato.

La contraddizione tra proletariato e borghesia, pur schematica, non era infatti pensata come una lotta tra un generico oppressore o dominante ed un altrettanto generico oppresso o dominato, tanto più alla luce della chiarificazione fornita dalla teoria del lumpenproletariat, termine con cui Marx era solito descrivere la cosiddetta “feccia della società”: una sorta di terzo incomodo, una class
e
del tutto simile al proletariato per condizioni di vita e status sociale, ma profondamente diversa da questo per la sua radicata incapacità di fuoriuscire dalle logiche dell’alienazione del lavoro altrui, attraverso varie forme di parassitismo sociale, caporalato, criminalità e brigantaggio.

Nessuna categoria morale, dunque, era alla base della critica al capitalismo di Marx ed Engels, bensì una classica analisi scientifica dei rapporti di forza tra classi sociali, qualcosa che sin dalle sue primissime teorizzazioni aveva ben poco a che fare con tutto ciò che avrebbe in seguito fornito terreno fertile per l’operaismo, per il cosiddetto fabbrichismo degli Anni Settanta e, in generale, nel quadro della più ampia retorica delle masse popolari e delle lotte per il riconoscimento, una retorica palesemente dominante lungo tutta la seconda parte del Novecento. La contraddizione principale della società è dunque nell’estrazione di plusvalore operata dal proprietario dei mezzi di produzione ai danni del lavoratore salariato? Per Marx ed Engels, era effettivamente così, ma soltanto relativamente al mondo occidentale. Come più volte ricordato da Gianfranco La Grassa, non soltanto il marxismo fa riferimento all’analisi dei rapporti di produzione e di scambio durante il periodo del cosiddetto monocentrismo britannico (prima rivoluzione industriale; definitiva sottomissione delle flotte spagnola, francese e olandese; espansione del dominio ai principali sbocchi navali del pianeta: Stretto di Gibilterra, Città del Capo, Canale di Suez, Golfo di Aden, Stretto di Hormuz, Singapore), ma individua anche alcune precise tendenze storiche, secondo cui le contraddizioni intrinseche al modo di produzione capitalistico sarebbero emerse proprio attraverso la sua fase di massimo sviluppo, pensata, durante quel momento storico, in relazione all’incremento qualitativo (operaio combinato) e quantitativo (forze produttive) della grande industria e del cosiddetto macchinismo. Come ricordato sia da Marx che da Engels, tale base tecnica della fabbrica e della grande industria avrebbe rappresentato la chiave di volta della rivoluzione, la sua possibilità di innesco, storicamente concretizzata14.

Queste condizioni strutturali, persino diversi decenni dopo la morte di Marx, erano presenti soltanto in Europa occidentale e nel Nord America, mentre erano quasi totalmente assenti altrove. Perfino le pur attentissime analisi delle colonie britanniche (Cina ed India su tutte) affrontate dal pensatore di Treviri nei suoi articoli giornalistici15, prevedevano sconvolgimenti sociali imminenti all’interno dell’Asia ma pur sempre in relazione alla disgregazione dei vecchi poteri dinastici interni (analogamente a quanto accaduto ai vari anciene régime crollati in Europa tra il 1789 e il 1850), e soprattutto all’ipotizzata esplosione rivoluzionaria all’interno delle potenze colonialiste europee (Gran Bretagna, Francia, Olanda, Germania, Spagna e Portogallo).

Gli strumenti forniti dal marxismo per comprendere le realtà non-occidentali erano quelli dell’economia (e in tal senso di una qual certa forma embrionale di geografia economica) e della storia, più o meno recente. Tuttavia, questi strumenti mai avrebbero permesso di prevedere l’affermazione di rivoluzioni comuniste così imminenti negli scenari politici e sociali della Russia e della Cina. La teoria leninista dell’ineguale sviluppo capitalistico e dell’anello debole o la teoria della fase democratico-borghese di transizione, inizialmente ritenute soddisfacenti, oggi risultano del tutto insufficienti a comprendere la portata di questi fenomeni e a giustificarne in modo marxianamente esaustivo lo sviluppo. L’Impero Russo all’inizio del XX secolo era indubbiamente entrato nel lotto delle potenze imperialiste europee, ed aveva ormai pienamente inaugurato una fase di investimenti considerevoli, ma le sue condizioni economiche interne erano enormemente arretrate se paragonate a quelle della Germania o della Gran Bretagna; mentre in Cina, i trentasette anni repubblicani che hanno visto al potere il Kuomintang, sia per ragioni temporali sia per ragioni di instabilità politica, non hanno assolutamente garantito alcun tipo di vasto sviluppo tale da poter condurre la nazione ad un livello di modernizzazione anche solo minimamente paragonabile a quello delle principali economie capitalistiche occidentali.

Quali fattori, dunque, ai fini dell’affermazione rivoluzionaria, hanno compensato e supplito all’assenza di un avanzato modo di produzione capitalistico? Questi fattori, seppur non riconducibili ad un capitalismo avanzato, sono comunque di esclusiva natura socio-economica (impoverimento collettivo, malessere e miseria) o anche di tipo extra-economico? E, in questo caso, quest’ultimi sono – come sosteneva Engels16 – riconducibili in ultima istanza pur sempre alla struttura economica oppure ne sono indipendenti? Quanto contano, nella specifica circostanza, la base geografica e la razza, individuate da Friedrich Engels quali principali fattori storici all’interno delle condizioni economiche di sviluppo17? A queste domande, in sede di dibattito, e in particolar modo in Occidente, non è mai stata data alcuna risposta, anzitutto perché praticamente nessuno ha mai posto il grande problema teorico costituito dalla contraddizione metodologica fondamentale, che ha attanagliato la riflessione marxista a partire dal secondo Novecento: ritenere il mondo un luogo piatto, in cui le numerose differenze geografiche, etniche e linguistiche (dunque storiche e non meramente culturali) giochino un ruolo secondario, passivo e totalmente subordinato all’economia (contrariamente a quanto scritto da Engels, che al contrario parlò di inter-azione reciproca) o che, addirittura, esse non esistano.

Di questo passo, in sede teorica, vaste aree del globo sono state livellate ed omologate in base ai parametri di un becero cosmopolitismo (in questo senso, per nulla diverso da quello illuminista e borghese della tradizione enciclopedica francese), svuotate di ogni contenuto utile per comprenderne la struttura sociale più concreta: intere vicende ed economie dell’Africa, dell’Asia meridionale e dell’Oceania sono state totalmente ignorate, mentre le situazioni in Russia, Cina, Europa Orientale, Sud-Est asiatico e Medio Oriente, sono state oggetto di dibattito soltanto in relazione ai parametri dell’ideologia (dunque della distorsione e del mascheramento), senza in realtà conoscerne pienamente le rispettive vicende ed il retroterra storico, politico e culturale che ne aveva caratterizzato lo sviluppo presente. Questo ha avuto il nefasto effetto di ridurre il panorama internazionale ai soliti schemi semplicistici preconfezionati, che, nella presunzione di inglobare tutto e subito nell’insieme dell’analisi dialettica, hanno provocato autentici disastri teorici e sciagurati posizionamenti politici, non ultimo quello in merito alla Libia.< br />
Il comunismo (o quanto meno, la parvenza di comunismo) promosso da questi gruppetti politici – sempre più residuali – è dunque un fantasma: non il fantasma che si aggirava per l’Europa centocinquanta anni fa, ma un cadavere vero e proprio, che per poter dare segni di vita deve infatti essere gonfiato con pesanti iniezioni di real-politik di marca atlantista, assumendo forme spurie di berlinguerismo e keynesismo, nel nome del ciclico compromesso storico, sino a tradursi nei soliti slogan fritti e rifritti dell’alleanza delle sinistre, dell’opposizione a Berlusconi, se non nel solito antifascismo nostalgico, grazie al quale viene continuamente riproposta l’ammucchiata elettorale con le più deteriori forze politiche anti-sociali e anti-nazionali, offuscando la vista e non consentendo a molte persone ingenue di cogliere la vera anomalia italiana (che non è Berlusconi, come amano ripetere Travaglio o i suoi amati analisti di Freedom House) e l’autentica contraddizione principale oggi presente nel nostro Paese, una esplicita contraddizione che sta tutta nella palese e strisciane limitazione di sovranità operata dalle imposizioni economiche, militari e culturali dettate dagli Stati Uniti, decisori de facto unilaterali nell’alveo del consesso nord-atlantico. Il dato è spaventoso: tali partiti e sigle contestano a Berlusconi non la decisione finale di aver avallato le richieste della coalizione atlantica stracciando e violando il Trattato di Amicizia di Bengasi ai danni di un Paese amico e cooperante, bensì l’eccessiva esitazione del nostro governo dinnanzi alle richieste statunitensi, francesi e britanniche, giustificandosi ideologicamente tramite la trovata di voler sostenere i ribelli (mercenari) libici, i quali hanno più volte e a gran voce chiesto il bombardamento della Nato contro il proprio Paese, mostrando, dunque, il loro vero volto di ascari ed apripista dell’aggressione atlantica contro la Libia. Il loro fantascientifico comunismo è diventato la parola d’ordine preferita dalla destra, quella con cui Fede, Sallusti o Feltri possono etichettare qualche no-global spacca vetrine, il radical chic Niki Vendola oppure l’avvocato di Carlo De Benedetti, cioè Giuliano Pisapia, nell’intento di spaventare qualche vecchia signora o qualche giovanotto leghista, ammaestrandoli al vocabolario maccartista de noantri. Nel frattempo l’Italia si tinge di arancione, e, visti i precedenti ucraini e tibetani, tutto ciò non promette nulla di buono.

1 FERRERO (RIFONDAZIONE COMUNISTA – FEDERAZIONE DELLA SINISTRA): PARTECIPIAMO ALLA MANIFESTAZIONE DI PROTESTA IN CORSO DAVANTI ALL’AMBASCIATA LIBICA A ROMA, 21/02/2011, comunicato stampa

2 http://www.youtube.com/watch?v=5f-H8ebC6OE

3 si veda MAO ZEDONG, Sulla Contraddizione, 1936

4 si veda V. LENIN, Il Socialismo e la Guerra, 1915

5 si veda V. LENIN, Imperialismo: fase suprema del capitalismo, 1916

6 si vedano J. STALIN, Il marxismo e la questione nazionale, 1913 e J. STALIN, Principi del Leninismo, Parte VI – La questione nazionale, 1924

7 si vedano soprattutto V. LENIN, Sull’orgoglio nazionale dei Grandi-Russi, 1914 e J. STALIN, Il marxismo e la linguistica, 1951

8 Oltre al vasto patrimonio strategico militare delle accademie militari dell’URSS, il riferimento politico è in particolare al discorso tenuto da Stalin sulla Piazza Rossa il 7/11/1941

9 si veda V. LENIN, Stato e Rivoluzione, 1917

10 M. MONTANARI, Il “partito russo”, saggio introduttivo a G. ZYUGANOV, Stato e Potenza, Edizioni All’Insegna del Veltro, Parma, 1999, p. 18

11 ibidem

12 G. ZYUGANOV, Stato e Potenza, Derzhava, Il significato della statualità russa, Edizioni All’Insegna del Veltro, Parma, 1999, pp. 50-51

13 si veda K. MARX – F. ENGELS, Manifesto del Partito Comunista, 1848

14 si vedano K. MARX, Il Capitale, Libro I, Sez. IV, Cap. 13, Par. 9 – Legislazione sulle fabbriche, 1866 e F. ENGELS, Anti-Duhring, Terza Sezione: Socialismo, Cap. III – Produzione, 1878

15 si rimanda al prezioso contributo in K. MARX – F. ENGELS, India, Cina, Russia: le premesse per tre rivoluzioni (a cura di B. Maffi), Edizioni Il Saggiatore, Milano, (©1960), 2008

16 si veda F. ENGELS, Lettera a Walter Borgius del 25/1/1894

17 ibidem