Cassa Depositi e Prestiti vs. Mediobanca: ricercando il nuovo campo del conflitto fra sub-dominanti italiani

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Beneduce, Cuccia e Maranghi si rivolteranno nella fossa alla luce degli schiaffoni che il loro indegno erede Nagel sta prendendo a destra e a manca. Dopo essere stato accusato di aver voluto favorire i Ligresti di nascosto, ha cercato rifugio fra le pagine di Repubblica, da sempre uno dei giornali più polemici e critici contro la “sua” operazione Unipol-Fonsai, e ha rimediato l’accusa di ingenuità da parte di Porro, penna ufficiale della corazzata del fronte opposto. Ora qualunque insulto può essere digerito da un manager che ha l’ambizione di rappresentare il luogo in cui “si regolano gli affari e si scambiano favori” della finanza e dell’industria italiana, ma quello di essere un ingenuo suona come la campana dell’ultimo giro. Se il destino di Nagel alla guida di Mediobanca sembra dunque definitivamente segnato, meno lineare è il percorso verso la marginalizzazione di Mediobanca stessa. Qualcuno vede all’orizzonte ricomparire uno dei “vecchietti”, tal Bazoli, che, a fronte di un sostegno formale a Nagel, si appresterebbe in realtà, nel caso di inevitabile caduta autunnale del giovane (47 anni) manager, a salvare il malloppo di Mediobanca e riposizionarsi come arbitro di rinnovate relazioni che tengano insieme il capitalismo italiano “di relazione” nell’era montiana (che non finirà con Monti). Può anche essere, ma non ci sembra l’essenziale di ciò che la lunga vicenda Unipol-Fonsai-Mediobanca segnala.

Dicevamo a giugno che “una conclusione in famiglia con le Coop sedute nel salotto buono e Mediobanca incontrastato mediatore della finanza italiana sembra definitivamente tramontata.“ Noi riconoscevamo che questo esito corrispondeva ad un disegno che, nato certamente per salvare se stessa e Unicredit, Mediobanca ambiva a mettere in campo per conformare un assetto di medio termine della finanza italiana, liquidando con l’onore delle “armi” (le uniche che abbia mai conosciuto e rispettato) l’ultimo sopravvissuto di un’era definitivamente tramontata e dando alle Coop la possibilità di emanciparsi dallo stigma del collateralismo piccista regional-solidaristico entrando appunto nel “salotto buono” (ancorché pagando un costoso gettone). E tenere saldo in mano l’intreccio azionario con RCS, Unicredit, Generali, Fonsai, Telecom. Una specie di compromesso-storico-finanziario fra ex: laici, cattolici e comunisti. Nell’intervista a Repubblica, Nagel a un certo punto chiama in causa il governo (al ministro Passera saranno fischiate le orecchie), chiedendosi come mai non fosse intervenuto a favore di Unipol-Mediobanca impegnate a combattere una battaglia di “interesse del Paese” (!). In realtà il governo aveva ed ha tutt’altre preoccupazioni e mire. E non stiamo parlando (solo) del fatto che Passera viene da BancaIntesa, semmai interessata a stare alla finestra per ridimensionare il ruolo di Mediobanca ed Unicredit, ed intervenire semmai successivamente.

Il governo italiano sembra ormai avere imboccato una strada del tutto diversa per comporre gli equilibri finanziari ed industriali italiani. Consideriamo nel loro complesso le seguenti principali mosse finora portate ad esito: dichiarazioni ripetute (Monti e Passera) di non voler interferire con le autonome scelte aziendali, interventi pesanti sulle reti (SNAM, TELECOM/Metroweb), creazione di nuovi fondi per la dismissione del patrimonio immobiliare pubblico e delle ex-municipalizzate. Tutti questi interventi partono certo dal presupposto del ridimensionamento della spesa pubblica e dello stock di debito, ma non vanno come nel ’92 nella direzione della pura e semplice svendita a privati, più o meno amici: essi, con una certa coerenza, prevedono il coinvolgimento di Cassa Depositi e Prestiti (CdP) come attore principale e perno finanziario, godendo essa di (formale) extra-territorialità rispetto al bilancio pubblico. Una volta assicurato un controllo nazionale (CdP) alle infrastrutture, ogni politica industriale viene lasciata alle “autonome forze del mercato”. Cioè, in queste condizioni, a qualsiasi investitore straniero o suo delegato. L’esempio paradigmatico è rappresentato dalla vicenda FIAT, nella lettura che ne ha dato il blog fin dall’inizio. Del resto CdP ha un ruolo multiforme: gestisce il risparmio privato delle Poste, presta alle piccole e medie imprese a tassi abbordabili, finanzia infrastrutture e aiuta a diminuire il debito pubblico. E quando è proprio necessario abbozza un minimo di politica industriale come nel caso dell’acquisizione della quota AVIO da Finmeccanica. E potrebbe allargare ancora il suo perimetro di attività per il tramite di un aumento di capitale riservato a “selezionati investitori istituzionali italiani ed internazionali” come adombrato da Massimo Mucchetti sul Corsera del 16 giugno scorso. Senza mai però acquisire quote di controllo né mai poter nominare i managers: particolare non di poco conto, che tuttavia non basta a fugare le invettive dei liberisti di tutto il mondo dal nostrano Istituto Bruno Leoni all’americanissimo WSJ che gridano al ritorno di un nuova IRI. Il duo Monti/Passera però tira avanti su questa strada perché questa linea, secondo noi, rappresenta il tentativo di definire un nuovo campo di conflitto strategico entro il quale le residue forze dei sub-dominanti italiani dovranno competere per dimostrare di poter ambire al ruolo di affidabili “cotonieri” nell’accezione lagrassiana del termine da tempo utilizzata in questo blog.

Se questo è il disegno complessivo, si capisce allora come l’operazione messa in campo da Mediobanca non rivestisse e non rivesta alcuna rilevanza “di sistema” per il sottogruppo di sub-dominanti al governo, checché ne pensi Nagel: una volta che Unipol avrà ottenuto il controllo di Fonsai (l’esito comunque ancora più probabile), le Coop saranno impegnate a recuperare i costi dell’operazione (da notare che non tutte le Coop hanno sottoscritto l’aumento di capitale della loro finanziaria Finsoe, creando di fatto una segmentazione al loro interno, ben lungi da qualsiasi logica solidaristica). Mediobanca sarà impegnata a disfarsi nel modo meno rovinoso possibile delle sue partecipazioni che “ostacolano” la concorrenza nel mercato assicurativo e bancario (il fondo USA Blackrock si è già portato avanti dentro Unipol), Unipol sarà impegnata nella operazione di fusione industriale che avrà costi politico-sindacali sensibili.

Niente più antichi e logori scontri fra “pubblico” e “privato”, da mediare nella camera di compensazione dell’IRI prima e di Mediobanca dopo. Soprattutto niente più velleità di politiche sovrane, quand’anche di nicchia. Tutti insieme allegramente a gestire e lucrare sulle reti nazionali, regionali e comunali (c’è spazio per tutti), mentre il resto, compreso le poche aziende strategico-innovative, sarà lasciato alla legge della giungla (che potrà avere di volta in volta un aspetto diverso: moralistico-giudiziario, umanitario, ambientalistico o semi-colonialista). Un blocco politico-sociale di riferimento costituito da “ceti medi parassitari, non interessati allo sviluppo di potenza, ma alla tranquilla gestione economica complementare ad altri interessi internazionali, da cui dipenderebbero per la produzione del reddito di cui vivere”. La “nazione” ridotta a pura geografia, con quel tanto di compenso di intermediazione da pagare da parte di chi vuole utilizzarla per propri interessi. Destra e Sinistra a fare ammuina sulla scena elettorale ogni tanto, sull’ammontare delle tariffe che il “poppolo” dovrà pagare perché il sistema vada avanti senza troppe scosse.

In definitiva il “vecchietto” Bazoli potrà forse ancora intervenire come salvatore-della-patria-Mediobanca, ma il campo del conflitto strategico principale si sarà già trasferito altrove.