CHI PARLA DI PREDOMINIO FINANZIARIO NON E’ NOSTRO AMICO MA E’ UN (ALTRO) NEMICO

Multipolarismo imperfetto (2)

CHI PARLA DI PREDOMINIO FINANZIARIO NON E’ NOSTRO AMICO MA E’ UN (ALTRO) NEMICO

Tutti i gruppi cosiddetti antisistemici, e i singoli contestatori del famigerato “globalismo”, partono da un comune elemento (sbagliato): il predominio della finanza. Ma direi che tutti costoro fanno anche di peggio perché poi parlano di élite globalista liquido-finanziaria (le aggettivazioni eccessive sono sempre sintomo di confusione mentale) guidata da massonerie del denaro o da burattinai individuali, come Soros. Quindi non si tratta nemmeno tanto di superiorità della sfera finanziaria (riferentisi, ad ogni modo, ad un processo oggettivo, sebbene parziale rispetto alle dinamiche complessive della società) ma di progettualità nefasta decisa a tavolino da ristrette aristocrazie di speculatori (supremazia di ridotte ma potenti soggettività sui rapporti sociali) per conquistare il mondo. Questa trama così semplificata non va bene nemmeno per un film distopico di fantascienza. Il “sistema” funziona in maniera ben più complessa ed articolata. Come ricorda La Grassa, “per giudicare dell’effettivo ruolo giocato dalla finanza è indispensabile avere di fronte a sé l’intero quadro delle relazioni interdominanti; e non solo in quel concetto di prima approssimazione rappresentato dalla formazione in generale, bensì in quello relativo alla complessiva articolazione delle formazioni particolari nella formazione globale o mondiale (o quanto meno dell’intera area del capitalismo più avanzato). L’interfaccia finanziario – per quanto concentrato e centralizzato sia questo insieme di colossi imprenditoriali di potenza inaudita – acquista certo nel capitalismo grandissima importanza, ma non assume irreversibilmente, e con assoluta generalità (i famosi stadi raggiunti ormai una volta per tutte), la predominanza. Per comprendere a fondo i conflitti in atto bisogna arrivare fino agli apparati, ma ancor più ai flussi conflittuali – di cui i primi sono coagulo, precipitazione, condensazione – tramite i quali, nella sfera politica e ideologico-culturale, gli uomini si affrontano e combattono.
In definitiva, riassumendo: a) la “base” (produzione di merci a mezzo di imprese in concorrenza) consente il conflitto creando la massa di mezzi a ciò necessaria e perseguendo, in tale attività, propri interessi particolari (trattati fin troppo semplicisticamente nel solo aspetto del profitto); b) l’“interfaccia” finanziario distribuisce tali mezzi, grazie alla forma monetaria da essi assunta in quanto merci (e, in questa attività, la finanza fa distinzioni tra i vari gruppi dominanti e cerca di stabilire indirizzi d’azione che le diano maggior potere nell’ambito del loro conflitto); c) le “sovrastrutture” politiche e culturali combattono e decidono, cercando di dare unitarietà di indirizzo – cioè l’apparenza (non però nel senso di mera illusorietà!) dell’intero – a paesi, a sistemi di paesi, ad aree mondiali sempre più vaste. In questo consiste il complesso intreccio, frutto di distinzioni e separazioni interconflittuali, tra gli agenti strategici economico-imprenditoriali (sia nella produzione che nella finanza) e quelli delle “sovrastrutture” politico-culturali. Per quanto riguarda tale intreccio, voler stabilire fasi o stadi in cui si afferma definitivamente l’irreversibile preminenza degli agenti dominanti in una sfera particolare sugli altri (delle altre sfere) è sintomo di cristallizzazione del pensiero in ideologiche teorie generali per mezzo delle quali – e allora torna buono quanto detto da Marx – una certa epoca pensa se stessa come ormai fosse l’ultima, quella definitiva, oltre la quale si pongono solo due alternative: la raggiunta eternità di una certa struttura sociale o il sicuro e ormai certo approssimarsi del cambiamento totale; a sua volta visto secondo due direzioni opposte: la catastrofe o la catarsi finale. In tutti e tre i casi saremmo alla “fine della storia”. Eternità (capitalistica, cioè dell’impresa e del mercato), catastrofe (magari ambientale) e catarsi (magari comunistica) sono i buchi neri della nostra razionalità, che si dovrebbe invece confrontare con la contingenza e la sempre incombente casualità. Ragionamenti analoghi, in senso però spaziale oltre che temporale, si fanno quando è una certa parte della formazione mondiale a pensarsi come quella che ha ormai conseguito la definitiva, e meno peggiore, struttura sociale, solo passibile di perfezionamenti minori e graduali. L’Occidente (la formazione dei funzionari del capitale) è un buon esempio di questo sciocco e limitato modo di pensare; ed è probabile, e forse persino sperabile, che ciò lo conduca alla perdita di una ormai immeritata egemonia mondiale.

…Il capitalismo, provocando l’estensione della funzione strategica all’ambito economico-produttivo, esalta la sua decisività ai fini della predominanza esercitata nell’ambito della società. Tuttavia, non è sufficiente lo svolgimento della funzione in oggetto al solo livello dell’economia; anzi, se essa si limitasse a quest’ultimo, l’orizzonte strategico tenderebbe a restringersi, diventando sovente la causa di un’eccessiva disgregazione del corpo sociale, di una sua decomposizione. Si tratta di un discorso che andrà ripreso in altra sede; comunque, nelle congiunture e nelle formazioni particolari in cui predominano nettamente gli agenti strategici economici – che diventano poi prevalentemente quelli finanziari, data la forma mercantile, e dunque monetaria, assunta dalla ricchezza prodotta capitalisticamente – si verifica il massimo di scomposizione sociale e di debolezza di quella data formazione particolare in quella specifica congiuntura (come esempio si veda proprio l’Italia odierna). Occorre un intreccio assai più equilibrato tra i gruppi dominanti della sfera economica e quellidelle sfere politica e ideologico-culturale – dai tempi più antichi investiti delle funzioni strategiche – per consentire al conflitto interdominanti di comporsi in un indirizzo sufficientemente unitario che attribuisce posizione di supremazia alla formazione particolare (oggi gli USA), in cui viene realizzato il migliore coordinamento possibile delle funzioni in oggetto esplicate nelle varie sfere sociali. Ed è in questa formazione particolare predominante che si constata con maggiore evidenza il ruolo non parassitario, bensì di interfaccia attivo tra economia e politica-ideologia, assunto dall’attività finanziaria, con gli apparati – banche, assicurazioni, fondi vari, ecc. – che di questa sono il precipitato, la condensazione.
I politici e ideologi del neoliberismo, anche nei paesi a capitalismo avanzato ma incapaci di vera indipendenza nei confronti di una formazione predominante, non trovano nulla da ridire su questi ostacoli al libero scambio per quanto concerne tali prodotti strategici; essi accettano inoltre, anzi propugnano, la massima concentrazione del capitale finanziario nei loro paesi, nel mentre praticano presunte liberalizzazioni, attuano misure che si pretendono antitrust al fine dichiarato (per copertura ideologica) di favorire la competizione, ecc., qualora si tratti di ostacolare l’attività di industrie in grado di dinamizzare l’intero sistema nazionale. Sembra un controsenso, un “darsi la zappa sui piedi”, ma non lo è affatto; per il semplice motivo che le “nuove signorie” (finanziarie) di tali paesi hanno la loro convenienza nel sottostare di fatto alla preminenza di una determinata formazione particolare (oggi gli USA per quanto ci riguarda)”.

Dunque, proprio di quest’ultima questione si tratta. Chi blatera di ur-finanziarismo, o finanz-capitalismo, mistificando la reale natura dei rapporti di forza mondiali, che hanno all’apice una nazione determinata (gli Stati Uniti), copre, volens nolens, la strategia di quest’attore egemone di potenza. Tale protagonista assoluto, che non ha nulla di liquido ma tutto di solido, dello stesso materiale delle sue armi di distruzione, si serve (anche) della finanza per proteggere ed allargare i suoi interessi. Tuttavia, confondere uno strumento con la sostanza del dominio è un errore imperdonabile per chi sostiene di essere dalla parte della sovranità nazionale o dei dominati. Il più delle volte si è complici del nemico senza volerlo (ma non tutti sono in buona fede). Occorre tenerne conto quando si dice che certi critici del capitalismo, al suo supremo e ultimo stadio cedolare, sono sulla nostra stessa barca. Di sicuro non sono sulla mia.