I PREDONI DI SERVIZIO


di Andrea Fais

 

Torna la strategia internazionale “democratica” della Casa Bianca: ingraziarsi qualunque tipologia umanoide, dai tagliagola ai mujaheddin, dai terroristi ai mercenari. Sono passati trentadue anni, ma da Jimmy Carter a Barack Obama, poco cambia. Nel dietro le quinte ancora si muove lo stratega Zbigniew Brzezinski, allora come oggi.

Era il 1979 quando l’Islam politico tornava di prepotenza a riconquistare il prestigio perduto in Medio Oriente, a seguito di almeno trent’anni di spinte laiche che, a differenza del kemalismo turco, erano riuscite ad indirizzare il nazionalismo non-confessionale del mondo arabo verso una stagione di aspra contrapposizione strategica con gli Stati Uniti e con Israele, avvicinando diversi Stati – come l’Egitto, l’Iraq e la Siria – all’Unione Sovietica. La rivoluzione khomeinista in Iran, che sostituisce una monarchia dispotica ormai “decotta”, e il colpo di Stato in Pakistan, che depone il socialista Bhutto e crea i migliori presupposti per l’ascesa al comando del generale Zia ul-Haq, sconvolgono il quadro e riconsegnano nelle mani della reazione islamica un potere strategico ritrovato. Il supporto dell’Arabia Saudita e del nuovo Pakistan risulteranno decisivi nel quadro della collaborazione e del sostegno congiunto tra le forze islamiche e i servizi anglo-americani nel tentativo di destabilizzare, attraverso incursioni terroristiche e attività contro-rivoluzionarie, la neo-nata Repubblica Democratica dell’Afghanistan di Nur Taraki.

Malgrado la scandalosa operazione cinematografica messa in scena da Stallone, il compito reale di quella missione era quello di riportare l’Afghanistan sotto il tallone del wahabismo, creando così un avamposto islamista ostile all’URSS sui confini meridionali, proprio a ridosso delle repubbliche sovietiche del Turkmenistan, dell’Uzbekistan e del Tagikistan, ancora corposamente abitate da popolazioni turaniche (le prime due) e indo-iraniche (la terza), di religione musulmana sunnita.

Le penetrazioni di Al-Qaeda all’interno dell’Asia Centrale e del Caucaso, nell’immediatezza del crollo dell’Unione Sovietica, e all’interno dei Balcani, subito dopo la disgregazione della Federazione di Jugoslavia, dimostrarono la prontezza strategica di questi gruppi – frutto di addestramenti “occidentali” durati oltre dieci anni – e tutta la funzione di destabilizzazione svolta nel quadro della geopolitica del caos che Washington ama riproporre regolarmente all’interno della massa eurasiatica e del Medio Oriente.

Gheddafi era nel mirino della Gran Bretagna da molti anni, e le cellule radicali islamiche di Somalia, Egitto e Algeria erano già state da tempo foraggiate attraverso l’MI-6 e la Cia per agire anche in Libia. Negli anni Novanta, il compito svolto dai sicari integralisti dell’UCK in Kosovo resta tutt’oggi un crimine contro l’umanità impunito. L’allora segretario alla Difesa, William Cohen, e il segretario di Stato, Madalaine Albright, si distinsero per l’efferatezza e la crudeltà nella decisione di bombardare impunemente la Serbia nel 1999, prendendo chiaramente posizione dopo una prima fase di incertezza internazionale del quadro successivo alla crisi in Bosnia-Herzegovina: appoggiare i gruppi terroristici islamici nei Balcani, abbandonando al loro destino la Serbia e le comunità cristiane ortodosse.

Oggi, possiamo ampiamente osservare, come queste cellule dormienti, abbiano ripreso la loro attività, insinuandosi alla base delle rivolte del mondo arabo. Anche stavolta, secondo il classico copione, ci sono “eroi” e “masse” da esaltare, e “tiranni” o “macellai” da estirpare. I Fratelli Musulmani e le frange salafite non “spaventano” più le anime belle occidentali, specie dopo la (sempre più immaginaria) esecuzione di Bin Laden… anzi tornano buoni per “avanzare verso Tripoli” o per mettere a ferro e fuoco il nord della Siria. Hamas addirittura festeggia dinnanzi alla vittoria dei “ribelli libici”, lasciando intendere quanto certi atteggiamenti ostinatamente e ciecamente filo-palestinesi siano pressoché inutili sul piano strategico e prevalentemente sentimentali, volti semplicemente a fuorviare l’attenzione e a confondere l’imperialismo della Nuova Israele (i “messianici” Stati Uniti quale City Upon-a-Hill veterotestamentaria e calvinista) con i crimini di un minuscolo Stato nominalmente ebraico, piazzato come avamposto atlantico (o, comunque, non-musulmano) in Medio Oriente. Un atteggiamento infantile, che sta accecando generazioni di sedicenti “antimperialisti”, pronti (giustamente) a difendere i palestinesi dalla angherie di Israele, ma indifferenti se non “soddisfatti” per quanto la Nato sta combinando in Libia.

Poco importa che Gheddafi sia stato ricevuto e accolto nel tripudio, proprio un anno fa, dallo stesso ministro (Franco Frattini) che oggi lo indica come un “dittatore” che “deve arrendersi”. Quel che conta in questa farsa pagliaccesca è la “democrazia”, e dunque, anche con una serie di bombardamenti a tappeto, si presume di costruire la “libertà”. Come un nuovo Piano Marshall, già sono pronti i finanziamenti per la ricostruzione (parolina magica che significa “giogo per i prossimi cinquant’anni come minimo”) resasi obbligatoria dopo i danni causati dai bombardamenti dei finanziatori della ricostruzione: Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e, nella sua solita nicchietta, l’Italia, fellona e opportunista, pronta a stracciare un Trattato di Amicizia con Gheddafi e a firmarne un altro con il venturo governo di Tripoli.

Diciamolo chiaramente: la partita era chiara sin dall’inizio. La schiacciante superiorità militare delle forze della coalizione atlantica rispetto alla debolezza dell’arsenale bellico di Gheddafi – già pesantemente ridotto dopo i primi giorni di bombardamento – era nota a tutti. Chiunque sperasse in una vittoria di Gheddafi, poteva soltanto fare affidamento su un ipotetico disimpegno della Nato dalle attività di guerra, alla luce del subbuglio di un rischio-default o di un rischio-insolvenza, che vede coinvolti praticamente quasi tutti i Paesi che la costituiscono in qualità di membri permanenti. Le impellenti necessità di tagliare la spesa pubblica in Europa e negli Stati Uniti, avrebbero potuto indurre questi Paesi a reperire fondi di salvataggio, attingendo dal bilancio militare. Per ora, malgrado l’invito/consiglio/avvertimento a tagliare le spese militari per risolvere i problemi della crisi finanziaria, rivolto dalla Cina agli Stati Uniti, Washington non sembra affatto intenzionata a concedere più di tanto. Se manterrà la parola data su Taiwan, la Cina potrà sicuramente cominciare a pregustare la prossima riannessione dell’isola alla madrepatria, e gli Stati Uniti risparmieranno senz’altro i circa 6,4 miliardi di dollari in mezzi militari già promessi – e poi congelati – a Taipei nel 2010, oltre ad evitare le spese per il futuro.

Il prezzo di questo primo “taglio” (quasi invisibile nelle cronache di questi giorni, e oggi definitivamente oscurato dalle notizie della “vittoria dei ribelli” in Libia) sarà indubbiamente pesante: rinunciare alla “portaerei” taiwanese, significa concedere alla Cina una capacità di manovra strategica sul suo Mare praticamente inedita dal 1950.

Ma spostare il “centro delle manovre” dall’Asia centrale ed orientale al Medio Oriente e al Nord Africa, cosa potrebbe implicare? Destabilizzare ad “effetto domino” una serie di governi “laici” nel mondo arabo, rinnovando un’ennesima alleanza di comodo con ennesime fazioni islamiste, cosa provocherà nel quadro dei rapporti tra Stati Uniti ed Israele? Distruggere la trama cinese in Sudan, in Libia, in Costa d’Avorio, in Egitto, in Tunisia o gli interessi navali russi in Siria, quali reali vantaggi potrebbe portare ai Paesi della Nato?

Senz’altro un Islam politico più forte – ossia con un forte centro territoriale di appoggio (ai Paesi della Penisola Araba si unirebbero dunque anche la nuova Libia, il nuovo Egitto, la nuova Tunisia ed una ipotetica nuova Siria) – è alla base di una capacità di infiltrazione più intensa nel resto del mondo, e questo vale anche per la Cecenia, per il Dagestan, per lo Xinjiang e per gli Stati dell’Asia Centrale. Ma la saldatura strategica tra Cina e Pakistan, oltre alle sempre più efficaci contromisure anti-terrorismo della SCO, de facto impediscono che questi progetti in stile anni Novanta, prendano corpo in modo concreto nel breve termine.

Resta da capire anche il ruolo dell’Iran che sta cercando, dal suo “isolato” punto di vista sciita, di rappresentare una specie di “terza forza”, alternativa sia alle frange sunnite sia alla Nato, ma che, come un po’ tutti i tentativi di “terzismo” internazionale dimostrano (basti pensare a quello cinese negli anni Sessanta-Settanta), rischia seriamente di prestarsi a trame pericolose.

Il quadro peggiore nelle varie ipotesi è paradossalmente quello paventato (ma per ben altre ragioni e con ben altri sviluppi, molto più fantasiosi e surreali) pure da alcuni esponenti della destra occidentale: l’espandersi, nei prossimi cinque-dieci anni, dell’Islam politico nell’intero Nord Africa e nell’intero Medio Oriente, sotto la guida di una Turchia, ridisegnata all’interno della Nato nel ruolo di “paese-guida” (moderno e avanzato) di un fronte di nazioni arretrate ma determinate ad espandere il proprio dominio, spingendosi, attraverso fanatismo e solidarietà confessionale, verso il Caucaso e l’Asia Centrale, sino a minacciare l’integrità territoriale della Cina nella regione dello Xinjiang. Fantasia? Staremo a vedere. E dovremo chiaramente capire anche chi e come succederà ad Obama nel 2013, e come l’Occidente riuscirà a gestire la situazione di pesantissima destabilizzazione economica in cui si è cacciato negli ultimi tre anni.