L’APPELLO A FAVORE DEL TTIP DI ALCUNI INTELLETTUALI ITALIANI

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Karl Marx aveva quasi sempre ragione quando si scagliava contro gli economisti “borghesi” i quali, anziché spiegare le leggi della società, spesso risolvevano i loro dubbi con scritti di venerazione per l’esistente, mettendo una pezza ideologica ai loro errori teorici. Diceva il barbuto di Treviri: “Gli economisti hanno un modo singolare di procedere. Per essi esistono solo due specie di istituzioni, artificiali e naturali. Le istituzioni del feudalesimo sono istituzioni artificiali, quelle della borghesia sono istituzioni naturali. In questo gli economisti somigliano ai teologi che, anch’essi, stabiliscono due tipi di religione. Ogni religione che non sia la loro è un’invenzione degli uomini, mentre la loro è una emanazione divina. Nell’affermare che i rapporti attuali – cioè i rapporti della produzione borghese – sono naturali, gli economisti vogliono significare che si tratta di rapporti nei quali la ricchezza si crea e le forze produttive si sviluppano conformemente alle leggi della natura. Tali rapporti dunque sono essi stessi delle leggi naturali, indipendenti dall’influenza del tempo. Sono leggi eterne che debbono reggere sempre la società. Così, c’è stata storia, ma ora non ce n’è più. C’è stata storia in quanto sono esistite delle istituzioni feudali contenenti dei rapporti di produzione assolutamente diversi da quelli della società borghese, che gli economisti vogliono far passare per rapporti naturali e quindi eterni”.

Tuttavia, nella sua critica a Friedrich List e al suo saggio «Das nationale System der politischen Ökonomie» il Moro prese un grosso abbaglio. Può capitare anche ai grandissimi di sbagliare obiettivo, soprattutto se sono ancora agli inizi della loro ricerca (la critica a List è del marzo del 1845, Marx aveva solo 27 anni) ma è importante, per il nostro discorso, prenderne atto e correggere il tiro.

Certo, List ci andava giù duro: “…i mali che oggi accompagnano l’industria sono cresciuti fino a diventare un motivo per rifiutare l’industria stessa. Esistono mali di gran lunga maggiori della situazione sociale dei proletari: un erario vuoto – l’impotenza nazionale – la schiavitù nazionale – la morte nazionale”, ma non si può dire che avesse torto, e noi italiani che ci stiamo andando molto vicino alla morte e alla schiavitù nazionale, nel nostro presente, dovremmo rivalutarlo almeno quanto basta.

Innanzitutto, dobbiamo rimandare al libro di La Grassa, Finanza e poteri, dove il ragionamento di List viene recuperato anche per smascherare la propagandistica liberista a noi contemporanea la quale, nascosta dietro i benefici del mercato, cerca di favorire l’azione egemonica degli Stati Uniti d’America sulle sue sfere d’influenza ed anche oltre. Scrive La Grassa che List, pur non mettendo in discussione le basi teoriche del libero commercio internazionale, ritenne che fosse necessaria una fase intermedia nella quale anche i paesi rimasti indietro nello sviluppo industriale, potessero avvicinarsi al grado di crescita e innovazione raggiunto dai cosiddetti first comers. Senza questo livellamento nei gradini dello sviluppo tra nazioni (di una certa area geografica che List chiama “temperata”) si correva il rischio che le nazioni più forti usassero “lo strumento della ‘libertà di commercio’ per ridurre in stato di dipendenza il commercio e l’industria di quelle più deboli”. Ovviamente, questa affermazione evoca scenari anoi contemporanei, come quelli degli accordi sul TTIP, di cui si discute molto in questa fase. List aveva criticato Ricardo, che, invece, propugnava la teoria dei costi comparati (ognuno produce quello che gli viene meglio e poi lo scambia sul mercato con quel che gli serve, per es. i portoghesi porteranno il loro ottimo vino e gli inglesi i loro cannoni), perché se i tedeschi si fossero specializzati solo in crauti (che sono una loro specialità) anziché nell’industria pesante e leggera la Germania sarebbe diventata preda di potenze ben più attrezzate e sviluppate nei settori di punta che non sono quelli agricoli. Per evitare ciò occorre proteggere la propria economia, almeno finché le imprese strategiche, difese dallo Stato quando sono ancora in fasce, contro una concorrenza internazionale spietata e sleale, impareranno a camminare sulle loro gambe.

Per queste stesse ragioni il TTIP potrebbe non essere un buon affare per l’UE, a fortiori se consideriamo che gli Usa, oltre ad essere la prima potenza mondiale in termini militari, sono anche quella con più brevetti tecnologici sul pianeta. Se l’Europa abbassa tutte le sue barriere protezionistiche finisce sbranata da tale competitor, più di quanto non avvenga di già.

Recentemente, Francia e Germania hanno rallentato sul TTIP perché, evidentemente, non ci tengono a fare la fine del topo braccato dal gatto. Apriti cielo! I liberisti si sono scatenati, stracciandosi le vesti per la lesa maestà alla globalizzazione e alle imperiture leggi del libero scambio (che se è libero fino in fondo non necessiterebbe di accordi che tendono ad escludere terze parti). Quelli italiani, che sono i più sconci, hanno stilato e firmato un appello per scongiurare l’interruzione delle trattative tra Bruxelles e la Casa Bianca sul TTIP (qui). Al fine di convincerci delle loro ragioni hanno tirato in ballo niente di meno che Bastiat (“dove passano le merci non passano gli eserciti”). Bastiat, il più apologeta di tutti gli economisti del ‘800, uno che sosteneva che: “il capitale è la potenza democratica filantropica ed egualitaria per eccellenza”e che “Il salariato è una formalità esteriore e indifferente della produzione capitalistica”. Insomma, uno che del capitalismo aveva capito poco e niente, proprio come i firmatari del manifesto a favore del TTIP i quali vogliono leccare il culo agli americani con il pretesto di salvaguardare la società aperta. Dal profondo del cuore: andate a cagare!