Pensieri di fine anno

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PENSIERI DI FINE ANNO (CON UNA APPENDICE DI R. PANNIKAR)

Ho cominciato a autodefinirmi marxista e comunista a diciannove anni, nel 1977, e da allora non ho mai smesso di considerarmi un non credente, prima ateo e successivamente agnostico razionalista. L’educazione cattolica che avevo ricevuto ad un certo punto mi sembrò del tutto insufficiente, soprattutto riguardo a quello che mi avevano insegnato attorno al modo di interpretare la virtù della caritas e l’atteggiamento da tenere di fronte al male e all’ingiustizia che prosperano nel mondo. Si trattò essenzialmente di un rifiuto del modo cristiano di affrontare i problemi politici e sociali perché se si voleva “ trasformare e migliorare il sistema sociale” in cui viviamo e “combattere efficacemente l’ingiustizia” non ci si poteva attenere a prediche ed esortazioni che non producevano nessun effetto “valido” se non quello ideologico adatto a tenere quiete e imbambolate le masse. Naturalmente non poteva mancare il riferimento all’”aporia di Ivan Karamazov” e quindi alla questione di come un Dio-amore onnipotente possa permettere le sofferenze e la morte prematura di persone sostanzialmente “buone” o addirittura di esseri umani del tutto  “innocenti” come i bambini. Poi ho conosciuto La Grassa che è diventato il mio punto di riferimento per quanto riguarda l’analisi della società e le posizioni politiche da assumere in base ai risultati teorici di questa ricerca scientifica. Io seguivo i suoi “spostamenti” e le sue “innovazioni” e quando le trovavo disorientanti mi limitavo a fargli qualche domanda e ci riflettevo su a lungo arrivando quasi sempre a convincermi della loro validità. Mantenevo una mia autonomia nel campo strettamente filosofico ma per quanto riguarda la teoria della società e la politica lui andava avanti e io, con i miei tempi, seguivo. A partire dal 1996 (con i libri La fine di una teoria e Lezioni sul capitalismo ) La Grassa ha esplicitato definitivamente il suo rapporto fortemente “critico”, sempre più accentuato col passare degli anni, nei confronti della tradizione marxista e comunista. Che io sappia è stato l’unico pensatore, già marxista, che abbia coerentizzato e quindi criticato il pensiero di Marx (e di Lenin) in maniera razionale e scientifica: gli altri si sono limitati a “buttar via tutto” (acqua sporca e bambino) oppure si sono rinchiusi in un economicismo rigido, ultraortodosso o “keynesizzato”, o infine , i più fantasiosi, hanno cercato di riproporre la cosiddetta filosofia della prassi, in definitiva una filosofia della speranza con connotati più o meno “religiosi”. Dopo una decina d’anni da allora la “rottura” lagrassiana con la “tradizione” si è definitivamente consumata, contemporaneamente alla continuazione di uno sforzo teorico importante, finalizzato al tentativo  dell’elaborazione di un nuovo “filo conduttore”  direzionato verso un paradigma innovativo che tenga conto di ciò che in Marx e nel marxismo – in seguito allo conclusione della parabola storica del comunismo del novecento – era risultato “falsificato”. Più o meno nello stesso periodo anch’ io mi sono allontanato definitivamente da quelle idee sulla politica e sulla società che, al contrario di La Grassa, nel mio vissuto si erano  spesso manifestate in forma, si potrebbe dire, “religiosa”. Il nostro nuovo approccio realistico, disincantato e “decostruttivo” – nei confronti degli “umanesimi” politici socialisteggianti e liberaldemocratici – ha lasciato nel sottoscritto però una sorta di “vuoto” che deriva da particolarità psicologiche e caratteriali dalle quali La Grassa e Petrosillo, invece, non sono “affetti”. Nonostante la mia convinzione che a partire dall’ultimo quarto del XX° secolo si sia giunti ad una fase storica che, con le parole di Nietzsche e Heidegger, si può nominare come l’epoca del “nichilismo compiuto” sto vivendo una sorta di riavvicinamento alla religione attraverso un percorso del tutto personale. Questo riavvicinamento, naturalmente, deve essere in grado di conciliarsi con posizioni politiche che hanno le loro radici in pensatori “cattivi” come Machiavelli e Schmitt. Il punto di partenza, a questo proposito, è il ragionamento elementare che se Dio è  onnipotente il male, la forza (esercitata nel conflitto e nella lotta) e la violenza che appaiono nel mondo possono esistere solo se è lui che lo vuole.  Le difficoltà che si producono a partire da questo dato di fatto sono, naturalmente, state affrontate con grande impegno dai padri e dottori della Chiesa e dai grandi teologi delle altre religioni.  Ma le risposte che sono state date da menti straordinarie come Paolo, Agostino, Tommaso, Al-Ghazālī, Maimonide, Adi Shankara, Panikkar e altri, non possono risultare mai veramente persuasive, per un problema come questo, se non vengono rielaborate e ricostruite in maniera personale. In qualche maniera ho iniziato, mi sembra di avere iniziato, a trovare un percorso che mi porterebbe a “giustificare” “l’ingiustificabile”. Se questo “piccolo manufatto” che sto costruendo non mi “esploderà in mano” il mio percorso di riavvicinamento alla “religione” potrà continuare altrimenti dovrò lasciarmi “trasportare dalla corrente” e così affrontare l’evidenza del “nichilismo compiuto” con le sue conseguenze dissolutorie: della “religiosità” ridotta a pura “moralità”; della filosofia ridotta a tecnosofia (semplice ancella delle scienze positive); della politica, rispetto alla quale si è consumata l’epoca della pluralità dei fini, con il conseguente trionfo del momento politico puro, ovverosia della lotta tra gruppi sociali nemici per la supremazia e il potere come unico fine. Onore e merito imperituro a Sergio Quinzio, Heidegger e Carl Schmitt per averci dato le chiavi di lettura per comprendere tutto questo. Ma non è il momento né il luogo per ampliare troppo il discorso. Mi limiterò a un ultimo breve ragionamento, e un paio di citazioni, riguardo alla “speranza” e alla “fede”. Nietzsche, a suo tempo, fece dire ad un Zarathustra immaginario queste parole: “Io sono un parapetto sul fiume, chi può si aggrappi a me, ma non sono la vostra stampella.” E forse la fede e la speranza “religiose” sono veramente una stampella per chi non è in grado di camminare da solo con le proprie gambe ma questo non vale, probabilmente, per la fede e la speranza nell’accezione più ampia. Cosa potrebbe portare, ad esempio, uno studioso a dedicare tutta la sua vita alla scienza e all’impegno politico in mancanza, quasi totale, di riconoscimenti economici e in termini di prestigio, conseguenti al totale rifiuto di qualsiasi compromesso per quanto riguarda la libertà di esprimere le sue idee ?  Una autentica vocazione, certo, ma anche la fede nella necessità che qualcuno si accolli questo peso e la speranza che la semina produca l’albero e i suoi frutti, in funzione della “vita”, della società e del mondo come realtà “viventi”. Così Schopenhauer aveva, in parte, le sue ragioni ad affermare che “o si pensa o si crede” ma la questione è in realtà più complessa come si capisce da questa lunga citazione tratta da un saggio di  Raimon Panikkar che è il regalo con il quale concludo questi miei pensieri di fine anno.

<<Per fede si intende quella dimensione dell’uomo che corrisponde al mito. L’uomo è aperto a un orizzonte sempre più vasto di consapevolezza, orizzonte che è presente nel mito. La fede è qui considerata come il veicolo mediante il quale la coscienza umana passa dal mythos al logos – in quanto ogni fede si esprime in credenze. La fede manifesta il mito in cui crediamo senza neppure ”credere” di crederci. Credere non è possedere una fede così come si possiede un oggetto di conoscenza; è semplicemente l’atto di credere. La riflessione umana sulla fede può riguardare sia il fatto che crediamo, sia i contenuti del nostro credo. Il primo caso rende possibile un discorso sulla fede e ci offre la consapevolezza dei risultati del credere. Il secondo caso o si autodemolisce come riflessione razionale, perché non comprende i contenuti della fede, o, se li comprende, la distrugge perché la converte in conoscenza. E’ quella che nel Medioevo latino veniva chiamata incompatibilità tra cognitum e creditum, tra ciò che si conosce e ciò che si crede. Sappiamo che crediamo (primo caso), ma non sappiamo in che cosa crediamo (secondo caso), ed ecco perché crediamo e non conosciamo. In altre parole, la fede che si esprime nel credere non ha oggetto, non è un ob-iectum della nostra mente. Tommaso d’Aquino, nella seconda parte della sua Summa Theologiae, esprimendo un convincimento comune nel mondo cristiano, poteva affermare: ”actus autem credentis non terminatur ad enuntiabilem sed ad rem”, “l’atto del credente non si ferma alla formulazione, ma ha il suo termine nella cosa stessa”, nella realtà stessa. La realtà, qui, è il mistero sempre inesauribile, al di là della conoscenza oggettiva. “Credo in Dio”, per esempio, è una affermazione cognitiva quando intende esprimere l’atto di credere (primo caso), mentre è fede reale soltanto quando non so che cosa sia Dio, cioè quando non conosco Dio come oggetto della mia fede (secondo caso). Se qualcuno mi chiedesse se credo in Dio, non saprei dare una risposta adeguata, in quanto non so che cosa si intenda dire con “Dio”, per cui non posso rispondere se credo o meno in questo “Dio”. Ogni interrogativo su Dio o si autodemolisce perché non sa che cosa stia chiedendo, o dissolve il Dio su cui stiamo indagando in qualcosa che non è più Dio, ma un semplice idolo. Il Dio della fede è un simbolo, non un concetto.>>

Mauro Tozzato 24.12.2016