PROCEDIAMO LENTAMENTE, MA PROCEDIAMO di Gianfranco La Grassa

Avvertenza. Questo è un saggio prevalentemente teorico è sarebbe da sito più che da blog. Per vari motivi, lo si deve mettere intanto nel blog.

 

1. I neoliberisti puri o quasi, che sono oggi tantissimi (perfino molti che chiedono talvolta l’intervento dello Stato per interessi specifici), sono convinti che il libero mercato – e le sue pretese leggi, che A. Smith compendiò nell’impersonalità e ineludibilità della “mano invisibile” – regolino ferramente ed oggettivamente il movimento del sistema economico. Altri, i “critici” che “più critici non si può”, affermano il primato assoluto (o quasi) del potere politico e delle sue manovre tese a guidare l’economia verso la realizzazione delle decisioni prese da determinati gruppi dominanti in modo preciso e consapevole. Ognuna delle due posizioni estremizzate coglie “verità parziali”, assai carenti. Nemmeno, credo, si può semplicisticamente sostenere che la “verità sta nel mezzo”: un po’ di questo e un po’ di quello.

Il sistema capitalistico è molto complesso, composto di tanti pezzi articolati tra loro, ma non coordinati da un superiore centro che “tutto vede e provvede”. La sfera economica “superficiale” di detto sistema è generalmente costituita da una rete mercantile in cui operano unità “produttive” – in senso lato, nel senso che pongono in essere beni e servizi, oggetti materiali (di consumo e di produzione) come flussi finanziari, ecc. – denominate imprese. Il sistema complessivo, tuttora definito capitalistico, è un insieme di più sfere sociali (distinte nettamente solo in teoria, ma che comunque hanno loro caratteri particolari: un apparato statale non è confondibile con un’impresa, ecc.). Tale insieme, nel mondo odierno, è considerato appunto capitalistico senza molte specificazioni; tuttavia, sia in senso storico-temporale sia in riferimento allo spazio geografico-sociale, culturale, ecc. ha conosciuto (tra XIX e XX secolo, ad esempio) e conosce, nelle differenti aree odierne, differenziazioni considerevoli.

L’impresa, considerata una unità economica per eccellenza, è in realtà operante in due ambiti differenti pur se intrecciati. E’ ripiegata all’interno di se stessa per assicurare appunto la sua unità; vi è poi l’intreccio interattivo delle varie unità costitutivo del famoso “mercato”, quello dotato di presunte leggi inattaccabili e cui bisogna piegarsi. Tali leggi si possono sfruttare entro certi limiti – parlo dell’opinione di un neoliberista – riconoscendo però prima di tutto la loro oggettiva, quasi naturale, ineluttabilità. Non è possibile, ad es., evitare sulla Terra la gravità, ma la si utilizza per ottenere risultati utili. La stessa impostazione del problema varrebbe appunto per quanto concerne il mercato. In quest’ultimo, le imprese non cooperano salvo che non sia vantaggioso unirsi in gruppo per meglio competere con altri gruppi. E l’eliminazione di molte di esse, talvolta di interi settori in cui operano diverse imprese, non è sempre un guaio per l’“organismo” sociale, tutt’altro; si pensi alla prevalenza delle imprese “innovatrici”, o anche semplicemente di quelle con costi minori grazie a più oculate organizzazioni. Si pensi al costituirsi di interamente nuovi settori produttivi in base a quelle che vengono definite “rivoluzioni industriali”.

L’unità interna dell’impresa è in realtà granulosa, è segmentata e stratificata in numerose “sub-unità”, tenute insieme in modo più o meno cogente od elastico a seconda delle contingenze. L’insieme va coordinato da un “nucleo centrale” che costituisce l’organo dirigente, variamente strutturato; individuale non lo è ormai più nelle imprese di dimensioni considerevoli, anche se un nome può fungere da rappresentante del gruppo di vertice. In genere, quest’ultimo è formato da un certo numero di individui “costretti” a cooperare affinché non si dissolva l’unità dell’impresa. Il “nucleo” dirigente non ha però mai solo funzioni di coordinamento interno. I suoi “ordini” vengono pure inviati alle sottounità che costituiscono la delimitazione di quell’unità imprenditoriale verso l’esterno; spesso anzi le decisioni dei dirigenti – le quali, in tal caso, non assumono certo la veste degli ordini – sono direttamente “inoltrate” verso l’esterno (l’ambiente), ignorando la “membrana” che delimita la “cellula imprenditoriale”. Che le funzioni coordinatrici, rivolte all’interno, e quelle dirette di fatto a mantenere l’unità imprenditoriale nei confronti del suo “ambiente” (detto appunto mercato), siano espletate dal medesimo gruppo di persone oppure no, non ha soverchia importanza. Nelle grandi imprese c’è solitamente una divisione di compiti tra chi ha compiti interni e chi invece esterni. Decisiva è, tuttavia, la distinzione funzionale, non personale. Perché all’esterno non si agisce con le medesime modalità delle operazioni di coordinamento interno delle diverse parti di cui l’impresa è costituita.

 

2. Le teorie dominanti vedono nell’impresa la cellula operativa per l’accrescimento della ricchezza e del benessere dei cittadini/consumatori; anche perché la concorrenza in base agli stimoli provenienti dal mercato (con le sue “leggi” ineludibili) migliora la produttività, spinge all’innovazione (di prodotto e di processo), abbassa i costi e, dandosi certe condizioni, i prezzi. In termini macroeconomici, è ammissibile il prodursi di un eccesso di offerta rispetto alla domanda, per cui occorre l’azione “correttiva” dello Stato (tramite la spesa pubblica) onde sopperire a tale discrepanza. Nessun dubbio comunque sul fatto che l’economia debba funzionare in base alle attività (anche innovatrici) delle imprese e alla loro concorrenza (interazione conflittuale) nel mercato; l’intervento della spesa statale non mira affatto ad alterare il funzionamento di quest’ultimo e delle imprese in esso. Le teorie “critiche” puntano sul fine del profitto come centrale ed essenziale per l’impresa, il che entrerebbe in contrasto, in date contingenze, con il benessere della collettività. Da qui molte teorie riformiste, tutte sempre convinte di poter contemperare le esigenze del capitalismo e quelle della “collettività” (indistinta, in quanto massa di lavoratori e consumatori).

Il marxismo si pone in un altro “universo” rispetto a simili teorie. Esso considera la funzione progressiva espletata dal capitalismo, inteso però come sistema di più unità produttive in mano ai proprietari dei mezzi di produzione, viste soprattutto come unità di trasformazione e, appunto, di sviluppo delle forze produttive, compreso il progresso tecnico; quindi considerando prevalentemente le innovazioni di processo e non tanto quelle di prodotto. Lo sviluppo è accompagnato dalle crisi economiche, intrinseche allo stesso (non eventi dovuti ad errori o imperfezioni del meccanismo), su cui i marxisti di “seconda generazione” hanno insistito, in pratica dissolvendo l’elemento centrale della teoria di Marx. Questa metteva soprattutto in luce, a parte lo sviluppo economico a sbalzi (senza pensare ad alcun “crollo” del sistema, aberrante conclusione di pseudo-marxisti presi per troppo tempo sul serio), l’enuclearsi della base sociale essenziale – il lavoratore collettivo cooperativo, unità di potenze mentali e di capacità esecutiva – della transizione ad una diversa formazione sociale: il socialismo, prima, e poi il comunismo. Essendo sbagliata (ma non irrealistica o utopica) la previsione circa la dinamica sociale comportante la nascita di tale lavoratore collettivo, ne risultò errata anche quella del comunismo.

In ogni caso, nessuna delle varie teorie qui accennate ha mai messo in dubbio che la razionalità centrale nel capitalismo è quella della produzione a mezzo dell’impiego minimo possibile di mezzi produttivi (ivi compresa la forza lavoro considerata in questa veste) per ottenere un dato risultato. Ci sono state diverse variazioni sul tema, ma hanno solo creato una teoria più confusa e complicata, riducendo una scienza comunque sociale ad un insieme di tecniche, o aziendali o di sedicente politica economica, di maggiore o minore successo: del tutto temporaneo e in condizioni date, che mutano spesso in periodi storici nemmeno troppo lunghi. Tutto ciò ha soltanto sbriciolato, polverizzato, la teoria, diminuendone la portata conoscitiva; in effetti, la teoria si è autoconsunta. Parlare delle chiacchiere odierne degli economisti come di una scienza è il sintomo preciso del degrado inarrestabile del pensiero in quest’epoca di totale appiattimento culturale, fatto passare comicamente come innalzamento della “cultura delle masse” (in realtà del loro abbrutimento, che non so come definire poiché dirlo bestiale è piuttosto razzistico nei confronti delle bestie).

Il problema decisivo è di capire dov’è il fulcro del dominio capitalistico, che non è differente, nella sostanza, da quello esistente in formazioni sociali differenti. Non si tratta però di ignorare, o di sottovalutare, la razionalità appena considerata, che è quella definita “economica” in senso lato, senza esclusivo riferimento alla sfera della società più specificamente economica, sia produttiva sia finanziaria. Questa è la razionalità del minimax, cioè del minimo dei mezzi (per realizzare un obiettivo) o del massimo risultato conseguito con dati mezzi. Si tratta senza dubbio della principale, spesso dell’esclusiva, razionalità impiegata nell’esercizio di una singola attività; con riferimento al “soggetto” rappresentato dall’impresa, è la razionalità applicata prevalentemente al suo interno, nella sua gestione, nel coordinamento delle sue sottounità e reparti, nell’organizzazione del personale in essa impiegato (secondo date strutture gerarchiche).

Che la razionalità del minimo mezzo abbia delle limitazioni, che le gerarchie siano a volte molto flessibili ed elastiche, non cambia affatto la sostanza del problema. L’attività dell’impresa è retta da questa razionalità (più o meno deformata da vari intralci: mancanza di conoscenza, azione delle imprese concorrenti, ecc.). Le stesse ricerche svolte in merito all’ambiente esterno (mercato in primis) – numero e consistenza dei concorrenti, capacità di assorbimento di quei dati prodotti da parte di strati vari di consumatori (divisi per livelli di reddito, abitudini di consumo, ecc.) e via dicendo – partono sempre dal presupposto che ogni soggetto si comporti dando la prevalenza a comportamenti razionali di tale tipologia, pur se poi si ammettono varie deviazioni dagli stessi; ma sono deviazioni rispetto a quel “modello di razionalità”, che resta quindi come “baricentro” dell’attività dei vari “soggetti” (anche gruppi di individui).

Non ho nessuna intenzione di mettermi a discettare sulla “natura umana”, discorsi che non mi competono. Per quel poco che so di storia, tuttavia, mi sembra che i “soggetti” (individui come anche gruppi più o meno numerosi degli stessi, variamente organizzati al loro interno) abbiano nel contempo finalità razionali diverse da quelle del minimax (che possono ben essere studiate con il ricorso alle “robinsonate”): finalità di conflitto, più o meno acuto, sempre però teso a prevalere in un qualche modo ed in una qualche misura. Gli elementi di cooperazione – più spesso mere alleanze – sono funzionali ad un simile conflitto teso alla supremazia. Così pure il coordinamento e organizzazione delle forze di un dato gruppo (anche di un’impresa dunque) sono finalizzati a questo scopo “superiore” (senza caricare di valore, positivo o negativo, tale termine; semplicemente è fine sovraordinato rispetto agli altri). A parità di ogni altra condizione, non vi è dubbio che è utile risparmiare in mezzi per conseguire un obiettivo; le forze restano più integre e disponibili per il futuro. Ha però poco senso risparmiare in mezzi se ciò comporta impossibilità di vincere in una competizione, se si apre così la strada alla supremazia di altri.

 

3. Una piccola digressione è tutto sommato utile oltre che preziosa per le sue indicazioni. Non i soli marxisti hanno spesso insistito sul fatto che il fine del capitalista è il massimo profitto. Se questo non può essere conseguito, per varie limitazioni poste alla razionalità del minimax, si tratterà comunque di un profitto “adeguato”, di un profitto calcolato su più lunghi periodi di tempo, e via modificando l’ipotesi originaria per apparire più concreti e aderenti all’empiria. In realtà, si stanno aggiungendo specificazioni teoricamente non molto consistenti. L’adeguatezza del profitto, il lungo periodo di tempo su cui calcolarlo, ecc. sono mascheramenti del fatto essenziale: il profitto è un mezzo per acquisire maggiore forza in vista dell’obiettivo principale, la ricerca della vittoria finale e della conquista della supremazia: definitiva o provvisoria, completa o parziale, con alleanze e/o compromessi temporanei o intransigenza radicale, ecc.

Forse pure Marx si è lasciato parzialmente obnubilare da quell’obiettivo (profitto) che è solo un mezzo per altra e ben più rilevante finalità. Egli tuttavia non voleva mettere in luce la sete di guadagno del capitalista; non so quante volte affermò che questi non è un avaro, non è il “mercante di Venezia”, non accumula per accumulare, falsa interpretazione del suo pensiero da parte degli epigoni (purtroppo in essa cadde pure Lenin, che però si liberò presto di simile condizionamento). Il punto centrale – per chi avesse voluto capire l’analisi del “Nostro” e la funzione della teoria del valore (e plusvalore) – non è tanto la “scoperta” della differenza tra lavoro (“sostanza” e misura del valore) e forza-lavoro (fonte del lavoro come valore) ridotta a merce nell’ambito dei rapporti di produzione capitalistici. L’acquisizione decisiva del pensiero marxiano (di cui fa testo proprio il paragrafo sul feticismo della merce, che alcuni superficiali commentatori hanno confuso con l’alienazione) è lo svelamento dell’inganno rappresentato dalla “libertà borghese” (capitalistica), fondata sull’eguaglianza dei possessori di merci, essendo merce anche la forza lavoro venduta come qualsiasi altra merce posseduta da ogni libero venditore di merci.

La cessione delle merci – che significa di fatto scambio fra esse con l’intermediazione del denaro, “merce” accettata “universalmente” in questa sua funzione – sottostà, tuttavia, a date “leggi”, che vengono contrabbandate per “naturali”, quindi per inesorabili e ineludibili. Se esse portano alle crisi, bisogna rassegnarvisi come ad un’eruzione vulcanica, ad un terre(mare)moto. In questo senso la merce è un feticcio, sembra impartire dall’alto i suoi “superiori” ordini agli uomini, ma solo nella storica formazione sociale dello scambio generalizzato. Gli individui, in quanto scambiano merci, non si alienano nei loro prodotti; devono piegarsi a “leggi” effettivamente esistenti, essendo dato un certo ordinamento della società, un assetto storicamente specifico dei rapporti sociali di produzione.

La teoria del valore marxiana svela che la libertà e l’eguaglianza dei possessori di merci nascondono una diseguaglianza reale, decisiva: quella implicata dalla proprietà (potere di disporre) dei mezzi di produzione. Da qui non nasce semplicemente lo “sfruttamento” – che in Marx è solo la differenza tra il valore creato dal lavoro erogato dalla forza lavoro e il valore dei mezzi di sussistenza (storico-sociale) necessari al possessore di quest’ultima per mantenerla in buona attività e venderla (“liberamente”) come merce – bensì proprio la disparità di forza, la diseguaglianza quanto a mezzi atti a partecipare al conflitto per la supremazia in società. Questa diseguaglianza riguardo ai mezzi (alla proprietà di quelli di produzione) stabilisce innanzitutto la prevalenza della classe dei proprietari (capitalisti) sui semplici, per quanto liberi, possessori di mera forza lavorativa (in quanto merce fra le altre), che costituiscono la “classe operaia” (poi divenuta, in linguaggio più sindacale, lavoro salariato e infine lavoro dipendente). La diseguaglianza relativa alla proprietà dei mezzi di produzione concerne però anche la “classe” capitalistica, i cui membri sono in perenne lotta per la preminenza nella società, che non è semplice predominio di una classe, ma semmai di frazioni della stessa in fasi diverse della storia del capitalismo.

La diseguaglianza in questione, pur scoperta dalla scienza (marxiana), non ha però immediato significato sociale e politico. Credere che basti rivelare agli operai (ai salariati) che non sono eguali ai proprietari dei mezzi produttivi, e che devono sottostare a “leggi” di mercato nient’affatto “naturali” ed ineluttabili, per farli ribellare, significa essere qualcosa di peggio che ingenui. Solo quando, in occasione delle crisi, le condizioni di vita di una maggioranza peggiorano relativamente a quelle della fase storica precedente, si possono avere fenomeni ribellistici, ma non certo di consapevolezza rivoluzionaria. Si cerca di ripristinare le precedenti condizioni di vita, non di possedere collettivamente i mezzi di produzione. Un possesso, di cui mai si sono comprese le condizioni effettive al di là di vaghe declamazioni ideologiche; un possesso che, una volta stabilito nelle sue forme legali, è risultato essere la semplice proprietà statale, caratterizzata quindi dalla reale capacità di disposizione e controllo da parte di chi deteneva il potere nello (e dello) Stato e nelle organizzazioni (ad es. un partito) che servivano ad esercitarlo.

La ribellione per ripristinare le precedenti condizioni di vita porta più spesso alimento alla lotta tra frazioni della “classe” dominante. E assai frequentemente, coloro che hanno blaterato intorno al possesso collettivo dei mezzi produttivi si sono trovati alleati delle frazioni dominanti della fase storica precedente la crisi, quelle frazioni che rappresentano il passato, la “reazione”, sovente la subordinazione rispetto a frazioni dominanti di altre formazioni particolari in lotta per la supremazia mondiale (viene a qualcuno in testa un qualche riferimento ai fatti odierni?). La teoria originaria di Marx era in grado di sfuggire a quest’uso (improprio) – ma, appunto, solo in sede teorica – grazie a quanto già sostenuto più sopra e da me ripetuto mille volte negli ultimi 15-20 anni.

Detta teoria conteneva la predizione, non immaginaria all’epoca in cui fu formulata, di una dinamica del modo (in particolare dei rapporti) di produzione in direzione del condensarsi di due poli contrapposti nella formazione sociale: il raggruppamento dei produttori in collettivi cooperativi di lavoro (della mente e del braccio) in costante crescita e il gruppo sempre più ristretto dei proprietari ormai ridotti a meri rentier, privi di qualsiasi ruolo fattivo nell’ambito della produzione. Alla fin fine, anche nel pensiero di Marx assunse posizione centrale la razionalità del minimax, della “economicità”. L’uso di tale razionalità era compito del capitalista (proprietario) nelle prime fasi del capitalismo; in questo consisteva la sua funzione utile, che poi, secondo la previsione marxiana, sarebbe andata persa e riassorbita completamente nel lavoratore collettivo cooperativo, pensato appunto quale base sociale oggettiva della transizione ad altra formazione sociale.

La previsione non si realizzò perché era sbagliata l’idea della centralità di quel tipo di razionalità. Essa è invece semplicemente un mezzo per il fine della supremazia; ma quest’ultima – e la razionalità delle mosse (strategie) che a tal fine si dirigono – non sono in diretta relazione causale con la razionalità di quella che può essere definita efficienza economica. Certo, si deve tenere conto dei mezzi che si hanno a disposizione, del loro migliore uso possibile, dell’utilità della loro accumulazione, ma la “visione di lungo periodo” è appunto quella che comprende come detto accumulo non è solo questione interna all’organizzazione, e coordinamento delle parti, di ogni “soggetto” agente (e anche l’impresa è tale), ma dipende ancor più dalla vittoria o sconfitta nella lotta per la supremazia in un determinato campo d’azione (che nella sfera economica è, genericamente parlando, il mercato).

La vittoria o sconfitta (o il compromesso, in genere temporaneo, o l’alleanza o addirittura la cooperazione subordinate allo scopo principale, ecc.) non dipendono esclusivamente dai mezzi a disposizione; anzi, la maggiore disponibilità di mezzi può essere il risultato di una vittoria, non la sua causa. D’altra parte, talvolta chi vince non acquisisce nuovi mezzi, ma distrugge quelli dell’avversario indebolendolo. In ogni caso il conflitto, e le strategie per condurlo, sono retti da una razionalità di tipo ben diverso da quella meramente calcolistica del minimo mezzo o massimo risultato. Il “massimo”, nel conflitto, non è lo stesso massimo che impegna le menti degli economisti o dei contabili. E la via per conseguire tale “massimo” (strategico) non è quella del maggior “risparmio” possibile di mezzi in vista di un dato risultato economico (ad es. il profitto, ma non solo) da realizzare.

 

4. Possiamo allora tornare al discorso principale. Nel passaggio dalle formazioni precapitalistiche a quella capitalistica (passaggio compiuto reiterate volte nel tempo storico e con modalità spesso dissimili da formazione particolare a formazione particolare), si ebbe in linea generale la crescita di importanza della sfera economica (produttiva e finanziaria, tenendo presente che merce e denaro sono consustanziali) nella lotta tra frazioni dominanti per la supremazia sociale. Attraverso processi storici differenziati – in cui uno dei più decisivi è stato la liberazione dei dominati da condizioni servili e la loro trasformazione in salariati, in liberi possessori di merce forza lavoro, senza di cui non sarebbe mai esistito il capitale (in quanto rapporto sociale e non semplice insieme di cose) – si sono andate formando nuove classi dominanti, la borghesia mercantile e poi (fondamentale e nettamente prevalente) quella industriale, dall’artigianato medievale e dalla trasformazione delle classi precedentemente dominanti, ecc.

Per una lunga epoca, caratterizzata dalle manifatture e successivamente da unità produttive industriali di dimensioni relativamente modeste e assai numerose, apparve essenziale la competizione (concorrenza) fra le stesse in base alle innovazioni (soprattutto di processo) e all’organizzazione produttiva. Innovazioni e organizzazione erano compito della funzione direttiva che spettava a chi possedeva i “capitali”, considerati in tal caso nella loro banale veste di proprietà dei mezzi produttivi (e di denaro per acquistarli). In realtà, rilevante era anche allora la “direzione strategica” nell’ambito di questa concorrenza, ma essa sfumava, era coperta, dall’assillo che sembrava preminente: ridurre costi e dunque prezzi per battere i concorrenti. E la riduzione dei costi appartiene appunto alle innovazioni e all’organizzazione, che implicano l’attività del capitalista soprattutto indirizzata alla sfera interna della propria unità produttiva. Non diversamente andavano le cose per quanto riguarda quelle unità “produttive” del mezzo di scambio “universale”, il denaro, e che erano dedite alle varie operazioni concernenti quest’ultimo (“la finanza”, la bestia nera di tutti i superficiali economisti).

Il mercato sembrava dominare la situazione, con le sue leggi oggettive e tassative; l’unico modo di sopravvivere e di prevalere sugli altri era battere gli avversari nell’economizzare le risorse per produrre le merci ad un costo minore, in modo da poterle vendere a prezzi inferiori a quello che, in ogni dato “istante”, era il “normale” vigente nel mercato stesso. Il fine del capitalista era considerato semplicemente nella figura del massimo profitto (pur con tutte le limitazioni che si vogliano individuare con riferimento alla razionalità del minimax); era però del tutto naturale trarne la conseguenza che, perseguendo il suo interesse, il capitalista faceva pure gli interessi degli individui in quanto consumatori.

Il marxismo, malgrado tutti gli aggiustamenti possibili, non ha mai capito sino in fondo – sino ai marx-keynesiani alla Baran-Sweezy – che si dovevano considerare i lavoratori salariati anche come consumatori. Li ha sempre trattati quasi soltanto nella loro condizione di sfruttati, cioè di fornitori di pluslavoro in forma di plusvalore (in definitiva profitto). Il “sottoconsumo” era vizio esplicito dei luxemburghiani, ma è stata malattia più generalizzata dell’intero marxismo “ortodosso”, sia pure talvolta in sottofondo. Mai i comunisti (marxisti) hanno veramente compreso la capacità del capitalismo (imprenditoriale e non meramente proprietario) di elevare, sia pure come trend e passando per fasi (cicli) di crisi (talvolta assai gravi), il tenore di vita dell’intera popolazione (anche degli strati più bassi) nelle formazioni capitalistiche. Le presunte “sacche di miseria” – i famosi barboni che mangiavano nei cassonetti, elemento demenziale di propaganda da parte di comunisti “antidiluviani”, che pronosticavano in pieni anni ’70 del ‘900 l’impoverimento crescente degli Stati Uniti; e del resto anche adesso che cosa si sostiene? – si alternavano alle lamentazioni contro il “consumismo” indotto dall’immorale capitalismo; da cui deriva tutta l’idiozia di chi crede di combatterlo e vincerlo inscenando gazzarre contro il progresso e lo sviluppo.

Alla faccia di questi arcaici personaggi, il capitalismo ha innalzato le condizioni di vita di una popolazione moltiplicatasi a dismisura. Il suo successo è stato spesso (tanto spesso) ottenuto con mezzi criminali, e tendenzialmente sempre più criminali; ma parlare oggi alle popolazioni dei capitalismi avanzati di sfruttamento può sollevare soltanto ondate di ilarità. Era del tutto ovvio che, di fronte a marxisti intestarditisi sulle tesi più caduche e infelici formulate in pieno ‘800 da un pensatore per quell’epoca rivoluzionario, prevalesse la teoria economica dei dominanti, con le sue tesi dell’imprenditore quale organizzatore dei fattori di produzione e innovatore, in grado di accrescere continuamente l’efficienza produttiva (razionalità del minimax) e di soddisfare quindi in misura crescente i bisogni di popolazioni in netto aumento.

Con la centralizzazione dei capitali – anche questa vista in modo distorto dal comunismo e marxismo, ma ho già scritto molto in passato a tale proposito – il capitalista è sempre più divenuto imprenditore. L’unità produttiva capitalistica, in quanto ormai impresa (e mai Marx usò tale termine, per il semplice motivo che non ne aveva nemmeno il sospetto né il concetto!), non ha visto affatto accentuarsi la dicotomia tra lavoratori salariati “sfruttati” – sia della mente che del braccio, in crescita numerica e in tendenziale “fusione” in quanto lavoratore collettivo cooperativo – e i capitalisti/proprietari divenuti semplici redditieri, possessori di capitali monetari (a questi essendo di fatto assimilati quelli in azioni e titoli in genere). L’impresa è un corpo “sociale” assai complesso (e complicato in stratificazioni diverse), in cui tende a prevalere il coordinamento delle parti relativamente autonome e dedite a compiti in via di crescente differenziazione “specialistica”. Al suo interno funziona, ma in modo non omogeneo e “lineare”, la razionalità del minimo mezzo tesa al conseguimento di scopi diversificati e pur convergenti verso quello complessivo del successo aziendale. Diventa sempre più evidente il suo “rivolgersi” all’ambiente esterno (il mercato), tanto che nei vertici acquistano peso tendenzialmente prevalente i dirigenti dei settori a ciò adibiti (ad es. il marketing).

 

5. La classe dominante muta abito; non si tratta affatto dei semplici proprietari ormai redditieri, bensì dei vertici organizzatori e coordinatori, che si concentrano sempre più sull’azione verso l’esterno. Possono essere anche proprietari o invece solo manager; in ogni caso l’interesse del gruppo al vertice dell’impresa (anche di quella attiva nella finanza) non è quello del semplice rentier, ma del “condottiero”. In questo senso il borghese proprietario si è andato trasformando in un soggetto – sempre meno (anzi quasi mai da ormai un secolo o giù di lì) un individuo, bensì un gruppo di comando – che espleta la funzione capitalistica (dal capitalismo borghese a quello dei funzionari del capitale, come da me affermato più volte).

I più lucidi nell’individuare la mutata funzione dell’imprenditore (il suddetto gruppo di comando), che assume qualità di stratega del capitale (sempre ricordando che si tratta di rapporto sociale e non di cosa), mi sembrano essere stati Burnham e l’austriaco Kurt Rothschild. Del primo si è detto più volte in passato; del secondo, forse oggi piuttosto dimenticato, ricordo che in un saggio di vecchia data (non riesco più a reperirlo) sostenne intelligentemente, in riferimento alla teoria dell’oligopolio, la maggiore utilità della lettura di Von Clausewitz rispetto ai saggi degli economisti. Tuttavia, entrambi hanno prestato prevalente attenzione alla sfera economica (produttiva e finanziaria) della società.

Il nucleo dirigente dell’impresa invia i suoi “ordini” verso la “membrana” della “cellula” in questione (complessamente articolata al suo interno); e da qui tali ordini esondano all’esterno allargandosi a macchia d’olio ed impregnando anzitutto l’“ambiente” denominato mercato. Già da questa prima considerazione, si dovrebbe afferrare la crescente rilevanza assunta dalla razionalità strategica, alle cui esigenze va sottomettendosi progressivamente quella del minimo mezzo (efficienza economica, applicata soprattutto all’interno). Le “leggi” del mercato – non “naturali” ed eternamente oggettive, bensì di carattere prettamente storico, portato di una precisa “epoca della produzione sociale” (qui Marx aveva completamente ragione!) – non vengono, finché perdura quest’epoca, semplicemente annullate dalla superiore attività strategica del gruppo di comando. Più o meno come il pensiero non annulla le leggi biologiche (che lo possono invece bloccare o distruggere in casi estremi); tuttavia, credere che il pensiero derivi da tali leggi, a queste si pieghi supinamente, assumendo un comportamento puramente passivo di semplice adattamento ad esse, è rinunciare alle prerogative dell’essere (sociale) dell’umanità.

Come la cultura alla fine sovrasta la “natura biologica”, così pure, nello sviluppo capitalistico, la razionalità strategica si pone ad un superiore livello rispetto a quello della pura economicità, delle “leggi del mercato” cui si piega il liberista; e, tutto sommato, anche lo statalista “keynesiano”, che assume semplicemente le vesti di colui che intende supplire a certe carenze del mercato stesso dal lato della sua alimentazione in termini di domanda; mai da quello di mutamenti strutturali effettivi. Lo Stato è solo visto quale erogatore di spesa (dunque di domanda complessiva), non come potere che, tramite applicazione al massimo livello della razionalità strategica, mira al mutamento dei rapporti di forza tra vari gruppi di comando.

Non basta quindi prestare attenzione all’attività strategica di tali gruppi al vertice delle unità imprenditoriali, attività che impregna, imbeve, via via il tessuto del mercato. Quest’ultimo diventa sempre più spugnoso; allora l’attività strategica esonda pure da esso e si allarga verso le altre sfere della società: quella politica e quella ideologico-culturale. Anche in tal caso, si faccia ben attenzione. Non si verifica mai alcuna semplice fusione delle diverse sfere; esse restano nella loro relativa autonomia (su ciò Althusser disse cose molto interessanti; credo da recuperare in diverso contesto). Ed è per questa loro autonomia che è necessario promuovere ancora molti studi sullo Stato, sui suoi apparati, sulla politica in generale; e pure sugli apparati ideologici, che non unirei a quelli dello Stato (com’è nella dizione “apparati ideologici di Stato”), ma tratterei invece nella loro autonomia culturale. Per dirla con Gramsci, analizzerei a fondo l’egemonia (culturale) corazzata di coercizione (da parte dello Stato), mantenendo una distinzione tra i due ambiti, eppur sapendo dov’è “l’elemento d’ultima istanza”: nel potere, manovrato secondo razionalità strategica per modificare i rapporti di forza tra gruppi di comando e conquistare la supremazia.

Nemmeno mi porrei dal punto di vista di una causalità diretta e unidirezionale tra razionalità strategica applicata nell’azione dai gruppi di comando imprenditoriali e quella esplicata dai correlativi gruppi nella sfera politica (statale in primis) e ideologico-culturale. Lo Stato esisteva già assai prima che si formasse il capitalismo imprenditoriale (dei funzionari del capitale); inoltre esso è la condensazione in apparati (con specifiche strutture organizzative, che svolgono particolari funzioni) dei flussi di energia promanante dai gruppi in lotta nella formazione sociale (nelle sue varie sfere) per conquistare la supremazia. Di conseguenza, non stabilirei, in specie arrivati alla nuova formazione sociale del capitale (lo ripeto: in quanto rapporto e non cosa), relazioni di determinazione causale semplicistiche e fuorvianti. Al fine di indagare la mutevole conformazione e l’intreccio storico-specifico di tali relazioni diventa decisiva la ben nota “analisi concreta della situazione concreta”, cioè l’analisi di fase. Ogni teoria della società deve limitare le sue generalizzazioni agli elementi ritenuti più decisivi e caratterizzanti le varie formazioni nella loro evoluzione e mutamento in successive epoche storiche. Non deve cercare di irrigidire la loro struttura in una serie di relazioni sistemiche sempre eguali e date una volta per tutte.

Si abbia coscienza che la struttura è puramente teorica, è la fissazione statica di una continua trasformazione dinamica. Impossibile rappresentarsi quest’ultima in tutte le sue infinite variabili e in ogni istante. E’ indispensabile, se si vuol agire, tenere fermo il campo d’azione per periodi di tempo di durata diversa in base a determinate esigenze (una battaglia è altra cosa dalla guerra, un’azione politica quotidiana differisce completamente dalla disposizione delle forze in lotta per intere fasi storiche, ecc.). In ogni caso, è necessario stabilizzare il campo della lotta e analizzarne le caratteristiche. Per questo si attribuiscono strutture e interrelazioni tra le parti elementari delle stesse (anche le parti vengono variamente divise e hanno diversa ampiezza e consistenza in base a specifiche esigenze). Guai però credere che la stabilizzazione, per una prassi di lotta (foss’anche solo teorico-ideologica), sia la riproduzione della “realtà”; si irrigidisce solo la teoria, si dimentica la necessità di mutamenti di fase, e ci si vota alla sconfitta o all’agitazione scomposta e ineffettuale, che è prodromo dell’inazione per esaurimento di ogni energia.

 

6. Quindi, per concludere del tutto provvisoriamente, è indispensabile cogliere l’aspetto decisivo e generale della formazione capitalistica, che del resto è lo stesso di ogni formazione sociale storicamente esistita: l’esplicarsi della razionalità strategica nel conflitto per la supremazia. Una volta chiarito il punto focale, senza lasciarsi più irretire dagli ambiti della lotta in cui funziona principalmente il principio del massimo risultato per un dato sforzo (costo) o del minimo di quest’ultimo per un dato risultato, che sarebbe così il principale obiettivo alla cui realizzazione si dedicherebbe l’immaginario corpo sociale lavorativo in mutua cooperazione – insomma, una volta preso atto che l’elemento decisivo, e null’affatto solo primordiale, “preistorico”, dell’azione umana è il conflitto per la supremazia – si tratta di cogliere, nell’analisi di fase, il peculiare svolgimento di tale conflitto e quali ambiti (sfere sociali) esso investe e con quale diversa intensità.

Marx affermò (cito a memoria): la fame è fame, ma quella soddisfatta con carne cruda, lacerata dalle proprie unghie, esprime bisogni tutt’affatto diversi da quella che si sazia con carne cotta mangiata con coltello e forchetta. Diciamo allora: il conflitto è conflitto, e mira sempre alla supremazia, ma quello che si esplica con clava o con arco e frecce è diverso da quello condotto con armi molto più raffinate e potenti; e se viene usata pure la strategia “non armata”, ma comunque sempre sostenuta da un determinato assetto di potere (da una determinata articolazione dei rapporti di forza tra gruppi sociali e/o tra paesi diversi), il conflitto esprime “bisogni” di predominio via via differenziati.

Tornando al punto di partenza, teniamo ben conto che ci troviamo in un sistema di possibile classificazione generale come capitalismo, in base agli elementi che catturano primieramente la nostra attenzione nella sfera economica (divisa in produttiva e finanziaria per il duplice aspetto assunto dalla cosa prodotta come merce): mercato e impresa. Tuttavia, non possiamo più limitarci a questi elementi, non dobbiamo considerare la formazione sociale come il mero prolungamento degli effetti della sfera economica nelle altre. Intanto, tali effetti non sono quelli della razionalità del minimax, bensì quelli delle strategie per il conflitto in vista dell’assunzione della preminenza. Inoltre, nella sopra rilevata esondazione degli ordini dei gruppi di comando dalle imprese al mercato e dal mercato alle altre sfere sociali – con trasformazione, allora, di questi “ordini” in mosse strategiche – non si ha semplice spandimento del potere in cerchi concentrici alla guisa di una macchia d’olio, che riguarderebbe una superficie bidimensionale. No, i cerchi si incontrano con altre onde del potere, spesso perfino più forti, dando così vita a “concrescenze” tridimensionali che corrugano variamente il territorio (sociale) e all’interno delle quali sono intrecciati (non fusi) i vari ambiti economici, politici, ideologico-culturali.

Altro che le semplificazioni neoliberiste intorno alle virtù taumaturgiche del “libero mercato”. Nemmeno però le sciocchezze circa la semplice predominanza prevaricatrice (e “tuttofare”) del potere: politico o finanziario (dei “malefici banchieri”). Si tratta in ogni caso di idee infantili, di idee di cervelli non più abituati all’analisi scientifica che, dietro le generalizzazioni indispensabili, nutre sempre un pensiero complesso e articolato. Perché solo dalla complessità, che inizialmente provoca certo indecisioni e titubanze analitiche, possono poi nascere “intuizioni” nuove in grado di ristrutturare il vecchio sapere e di aprirlo a ulteriori prospettive, prima ignote perché non si inforcavano altri occhiali. Oggi ci sono pochi scienziati (parlo delle scienze della società); e invece folte schiere di tecnici convinti di tutto imbragare in tabelle e formule, in modellistica senz’altro utile ma limitata all’esistente, al già “scoperto”. L’ignoto resterà per sempre tale.

D’altronde, i “critici critici”, semplici disadattati e scontenti della situazione (dorata) in cui vivono, gente in preda allo spleen, alla noia di una vita ben pasciuta, cercano di trovare in un unico punto il Male del mondo: il Capitale, le Banche, il Progresso, la Natura Violata, il Personaggio Diabolico, lo Stato Padrone; e…. scusate ma la mia fantasia non riesce a cogliere tutte le farneticazioni della ormai debordante schiera degli idioti, che tutto semplificano, degradando il pensiero a secrezione di “stronzate”, frutto di una cultura (non a caso di massa!) che dimostra come il poco sia immensamente più dannoso del niente. Petrolini irrideva i “cretini con lampi di imbecillità”. Ebbene, oggi ci sono solo cretini, i lampi si sono spenti. Il grande comico romano non potrebbe vivere ai giorni nostri; si suiciderebbe poiché è impossibile esercitare la satira nei confronti dei mentecatti.

E adesso, al lavoro serio!

 

Finito il 19 luglio ‘11