TAIWAN, GLI USA CEDONO: COSA POTREBBE CAMBIARE?

Dopo i primi due giorni della visita del vice-presidente Usa, Joe Biden, in Cina, appare ormai chiaro come il cambiamento in atto all’interno del campo dei rapporti di forza internazionali stia assumendo contorni sempre più netti e definiti. L’ultima svolta in questa direzione è il dietrofront degli Stati Uniti su due delle questioni più ostiche nell’alveo delle contrastanti relazioni tra Pechino e Washington. Taiwan e il Tibet, assieme alla questione uigura, alla questione coreana e ai delicati bilanciamenti commerciali coi Paesi del Sud Est Asiatico (dunque con l’Asean), costituiscono le principali partite, ancora fermamente aperte sul tavolo del Partito Comunista Cinese, intenzionato – ormai è chiaro – a ricostruire una Grande Cina, capace di riemergere – attraverso un imponente sviluppo di forze produttive e una vasta opera di avanzamento detta delle “quattro modernizzazioni” – nello scenario internazionale, proponendosi come unica seria alternativa non soltanto economica (in virtù di una diversa idea di Stato, di investimento e di ripartizione delle ricchezze, inquadrati come tasselli prioritari nella fase centrale del cosiddetto socialismo con caratteristiche cinesi), ma anche politica, in virtù di una dottrina internazionale completamente diversa rispetto a quella occidentale, fondata sulla coesistenza pacifica, sulla non-ingerenza, sulla cooperazione e sul rispetto per la sovranità e l’integrità territoriale degli altri Stati. Questa “estensione globale” dei vecchi principi di Zhou Enlai, operata a partire dalla fitta trama di pacificazione dei confini avanzata da Deng Xiaoping, ha imposto infatti la rinuncia definitiva alla vecchia e suggestiva idea maoista di voler esportare la rivoluzione nelle cosiddette “campagne” del Terzo Mondo, al fine di accerchiare le “città” del mondo capitalistico.

Il Partito Comunista Cinese è oggi, ancora più di ieri, un partito a carattere nazionale, e più propriamente il partito guida della Cina, intesa quale civiltà unica ed irriducibile. È perciò chiaro che gli obiettivi principali della Cina popolare – così come quello di ogni Stato che cerca di ergersi a protagonista – siano la riunificazione territoriale di tutte le regioni storicamente e/o etnicamente cinesi e la loro messa in sicurezza. Chiudere i conti con le sovversive campagne mondiali di propaganda terroristica nel Tibet, orchestrate per anni dal Dalai Lama e sostenute da attori americani, filantropi, organizzazioni non-governative occidentali, frange neofasciste e partiti radicali, consentirà finalmente alla Cina di operare, senza più odiose ingerenze esterne, la repressione definitiva delle frange estremiste e separatiste, ormai da diversi anni infiltrate all’interno della pacifiche comunità lamaiste nel Tibet e all’interno delle pacifiche comunità islamiche nello Xinjiang. Mentre, ancora più importante, estromettere progressivamente gli Stati Uniti dallo scenario taiwanese – specie dopo gli scandali emersi per le forniture illegali di armi all’esercito della Repubblica di Cina e per il sostegno al Partito Democratico taiwanese (pro-indipendentista) – rappresenterà un passaggio fondamentale per tentare di portare a compimento il dialogo pacifico avviato due anni fa con il nuovo numero uno di Taipei, il nazionalista Ma Ying-jeou, che potrebbe ben presto concludersi nella ratifica di una nuova annessione sul modello “un Paese, due sistemi” già utilizzato in occasione del ricongiungimento alla madrepatria di Hong Kong nel 1997 e di Macao nel 1999 che, come stabilito da Deng Xiaoping assieme alle delegazioni britanniche e portoghesi negli anni Ottanta, avrebbero mantenuto per altri cinquanta anni una relativa autonomia sul piano economico (conservando dunque il vecchio sistema “occidentale”).

Dopo la nuova crisi sullo stretto di Taiwan del 1995-’96, la Repubblica Popolare ha fatto registrare un’impennata nella spesa militare: da ormai quindici anni il gigante asiatico investe una notevole parte delle sue finanze nel settore della difesa, cercando di armonizzare lo sviluppo economico molto accelerato nella decade 1985-1994 con la crescente richiesta di coesione sociale e di sicurezza collettiva. Gli scenari che si potrebbero aprire sul Mar Cinese Settentrionale e su quello Meridionale – fra i quali Taiwan si pone come una sorta di spartiacque – sono assolutamente inediti.

Pochi mesi dopo la rivoluzione maoista, difatti, la VII flotta americana è penetrata nello stretto di Taiwan mentre la XIII squadra aerea si è stanziata nell’isola. Inoltre, dal 1954 il governo di Taipei gode in via ufficiale dell’appoggio economico e militare degli Stati Uniti, che dal canto loro ne hanno fatto il più importante avamposto navale sul Pacifico Asiatico, attraverso il Trattato di Mutua Difesa sino-americano tra Stati Uniti e Repubblica di Cina. Come le ingerenze degli anni Novanta hanno dimostrato, le successive revisioni del trattato avviate da Jimmy Carter alla fine degli anni Settanta, sono risultate mere mosse di opportunismo politico, nel quadro della nuova politica del ping-pong avviata da Nixon e da Kissinger qualche anno prima, al solo fine del contenimento dell’Unione Sovietica. Dopo il 1991, infatti, la tensione sullo stretto è spesso tornata ai livelli degli anni Cinquanta e Sessanta. Già nel 1992 gli Stati Uniti vendettero 150 caccia F-16, violando palesemente la revisione del Trattato operata nel 1982. Questa tendenza è diventata una costante negli ultimi venti anni, tanto che la Cina ha presentato una bozza di risoluzione presso le Nazioni Unite affinché vengano sanzionate le industrie belliche americane che hanno fornito armi a Taiwan. La vendita di materiale militare era già stata formalizzata presso il Parlamento degli Stati Uniti e, successivamente, presso il Consiglio di Stato nel gennaio del 2010: uno stock di mezzi mobili e di armamenti (60 elicotteri Black Hawk, 114 sistemi missilistici Patriot, 12 missili telguidati Harpoon, 2 dragamine Sea Eagle e diversi altre strumentazioni di tipo ICT) per un valore pari a quasi 6,4 miliardi di dollari.

Nel maggio scorso, il comandante del Dipartimento Generale del Personale dell’Esercito Popolare di Liberazione, generale Chen Bingde, in visita presso il Pentagono, era stato chiarissimo: le forniture degli Stati Uniti all’esercito di Taiwan costituiscono una grave ingerenza direttamente proporzionale all’entità degli armamenti ceduti.
Con questo cambiamento di rotta in merito a Taiwan, sancito dall’incontro tra il probabile futuro presidente della Repubblica Popolare, Xi Jinping, e il vice di Barack Obama, Joe Biden, risulta evidente come la Cina stia sfruttando la sua migliore condizione di stabilità finanziaria e, soprattutto, la sua condizione di primo creditore degli Stati Uniti, per operare un primo, parziale giro di vite nel quadro dei rapporti di forza internazionali, ad iniziare dalla definitiva ricostruzione della propria sovranità e di una propria capacità difensiva integrale che – come sottolineava già Wei Yuan nel XIX secolo, nel tentativo di teorizzare una concreta reazione alle aggressioni imperialiste europee – non può che passare da un agile supremazia sulle coste nazionali, dal controllo delle isole e da una proiezione marittima di primo piano che tuteli la stabilità a nord (Penisola coreana e Giappone) e gli interessi cinesi nelle rotte comprese tra lo Stretto di Malacca e il Golfo di Tonchino. Proprio il veloce sviluppo militare delle basi installate sull’isola di Hainan e il recente ingresso in servizio della portaerei ex-sovietica
Varyag, comprata nel 1998 dall’Ucraina e rimessa a nuovo dai cinesi, sono mosse che sembrano non lasciare nulla al caso. La tenaglia egemonica di Washington sulla regione del Pacifico Asiatico comincia a dissolversi.