VERSO LA FINE DELLA COSIDDETTA GLOBALIZZAZIONE

bce

 

Janet Yellen e Mario Draghi (rispettivi rappresentanti delle banche centrali di Usa e Europa) si sono riuniti a Jackson Hole (Stati Uniti) per una analisi più compiuta della “Grande Crisi”.   Una preoccupazione che è alimentata dalla necessità di gestire tensioni e squilibri e, soprattutto, dal pericolo che aleggia di protezionismo.

Questo rimpallo tra  testimoni così autorevoli trova un consenso unanime quando,  contrariamente alle più fosche previsioni, si afferma, con certezza assoluta, che la ripresa globale va rafforzando. “La questione è  ora come alzare il potenziale di crescita” (Draghi e Yellen)  che nei paesi Ocse ha rallentato dal 2% del 2000 al 1% in data odierna. Secondo Draghi, il problema principale è quello della produttività  e con esso quello di una maggiore apertura  al libero scambio e ai liberi flussi di investimenti ai finanziatori che svolgono ruoli essenziali nella diffusione di nuove tecnologie e che trainano miglioramenti nell’efficienza e nella produzione.  Ma a fronte degli imperativi di creare una continua coesione di intenti, di continue convergenze e fiducie reciproche, i governatori vedono con apprensione le insufficienti “regolamentazioni del settore finanziario globale” che hanno partorito la crisi. E una più convinta regolamentazione sono le migliori garanzie nei confronti degli scivoloni  nel protezionismo. Janet Yellen ha perorato una più puntuale regolamentazione bancaria e finanziaria, con un monito rivolto a chi si oppone sostenendo i vantaggi netti  “di un ritorno alla crescita del credito ed alla redditività degli istituti statunitensi più rapidamente di quanto avvenuto finora”.

Janet  ha difeso le grandi riforme di cui la Fed è stata protagonista assoluta nella crescita e nella stabilità del sistema finanziario ed indirettamente il Presidente Trump che vorrebbe spingere l’acceleratore sulla deregulation nazionale ed internazionale.

Ma dobbiamo dire che Trump nell’incipiente  multipolarismo che si va profilando, sta parallelamente segnando  la fine della globalizzazione, ovvero la americanizzazione di intere aree globali  cui fece seguito a suo tempo nella caduta dell’Urss. La pillola globalista che si volle estendere all’intero globo non funziona più.

La stessa  ripresina italiana è un po’ l’effetto di questo clima globalista tanto decantato ed osannato. Nonostante le rosee previsioni snocciolate dagli istituti statistici, l’ economia italiana stenta a ritornare a marciare e  dall’estero arrivano  segnali d’allarme. Già il Financial Times evidenziava come l’Italia sia uno dei pochi Paesi a non essere ancora ritornato ai livelli di benessere del 2007, nonostante i proclami ufficiali di una economia avviata ad una sicura ripresa. Il dato più sorprendente è che  risulta un futuro costellato di troppe incertezze con scenari forse peggiori di quanto propinato a causa di un debito stellare e della fine di tutto il sistema industriale italiano( a parte qualche residuo industriale sopravvissuto alla completa devastazione effettuata dal 1992 in poi  con “Mani Pulite”) .

Per gli osservatori esteri l’Italia è in definitiva il “maggior rischio alla stabilità economica dell’euro nonostante alcuni indicatori economici siano risultati superiori alle stime di mercato”.  C’è da aggiungere che la persistente bassa inflazione che sembra coincidere con la deflazione indica una grave ed insufficiente vitalità dell’economia e della società italiana: è come un tappo messo a comprimere ogni forma di propensione al consumo, ogni forma di investimento e lavoro.

Infine, nel raffronto con gli altri Paesi l’Italia rimane il fanalino di coda dell’Unione  Europea e continua a crescere alla metà del ritmo vantato dagli altri paesi europei. E per quanto le previsioni del Pil siano oggi positive di circa all’1,3% rispetto ad una media dei Paesi europei doppi (+2,1%). Lo stesso Fmi a fine luglio prevedeva il ritorno del Pil ai livelli precrisi non prima della metà del 2025 e parlava di rischi significativi sulla ripresa italiana determinati dalla fragilità finanziaria e della difficoltà  a sostenere i livelli stellari del debito pubblico una volta che la Bce avrà messo la parola fine al quantitative easing. Non è un caso che le banche italiane ed europee stiano vendendo a piene mani i Btp (I buoni del tesoro poliennali italiani).

GIANNI DUCHINI settembre ‘17