A PROPOSITO DEL POPULISMO E DEL SOVRANISMO

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Nella parte conclusiva di un nostro intervento apparso in questo blog nell’agosto 2016 scrivevamo: <<Diversi anni fa Marcello Veneziani aveva proposto una nuova polarizzazione [rispetto alla ormai obsoleta dicotomia destra-sinistra. N.d.r.], utilizzando le denominazioni convenzionali di comunitari e liberal, la quale sarebbe stata il risultato dello smembramento dei poli tradizionali sulla base dei principi solidaristici e identitario-corporativi, da una parte,  e di difesa dei diritti (civili) e delle “libertà”  dall’altra. Progressivamente anche questa tipizzazione si è sgretolata, di fronte al rullo compressore di una crisi di cui non si vede la via di uscita, e in qualche maniera, almeno in occidente, i gruppi dominanti liberali e filoamericani sono riusciti a rappresentare culturalmente e mediaticamente tutte le forme di opposizione, comunque sempre “interna”,  al modello sociale capitalistico utilizzando la categoria di populismo enfatizzando le ambiguità del concetto e combinandolo con le problematiche riguardanti il cosiddetto nemico esterno: il terrorismo e le “civiltà” che risulterebbero “meno progredite” sul piano culturale, sociale e “dei diritti” come la Russia e la Cina.>>

Nel gennaio di quest’anno sul Sole 24 ore, Sergio Fabbrini, un noto politologo che insegna presso la LUISS, è intervenuto, un paio di volte, su tematiche scottanti quali il nazionalismo e il populismo in rapporto a quelle prese di posizione che vengono definite da alcuni anni come “sovraniste”. Una “nuova frattura” si aggirerebbe per l’Europa ed essa sembrerebbe opporre “populisti e anti-populisti, piuttosto che sinistra e destra”. Fabbrini ammette che è in atto un forte e diffuso “rifiuto delle élite” e un radicato atteggiamento “anti-establishment” nelle dinamiche politiche dei paesi europei (e in particolare dell’Eurozona).  L’elemento fondamentale da cui partire è comunque, per il professore, la constatazione che il

<<rifiuto delle élite politiche nazionali è sempre di più motivato dai loro fallimenti nel governare il processo di integrazione europea. Un rifiuto che ha condotto alla rinascita del sovranismo in quanto alternativa popolare all’europeismo.>>

In maniera abbastanza realistica Fabbrini considera che in alcuni paesi l’ insoddisfazione è stata alimentata prevalentemente dalla manifesta incapacità dei vertici Ue e dei governi di gestire la “crisi finanziaria” e, aggiungiamo noi, economica e sociale. Così che in maniera del tutto logica le forze di opposizione hanno fatto propria la richiesta di una maggiore autonomia nazionale nel campo delle politiche economiche, a cominciare da quelle di bilancio. Il docente della LUISS però ritiene che in altri casi – e soprattutto in Francia, Paesi Bassi, Austria e Germania – l’elemento “identitario” abbia avuto un peso preponderante. La forte mobilitazione contro l’immigrazione incontrollata “ha risvegliato sentimenti nazionalisti a lungo dormienti in quelle società” e sta progressivamente alimentando una forte richiesta tesa a recuperare autonomia decisoria riguardo a molte questioni importanti demandate a suo tempo a Bruxelles. L’attuale modello di “governance”  che caratterizza la Ue avrebbe

<<acquisito un carattere in misura crescente tecnocratico, in quanto le decisioni europee sembrano essere prese attraverso meccanismi automatici e procedure oscure.>>

Le élite nazionali che negli ultimi anni hanno governato i paesi europei si sono perfettamente adeguate e hanno funzionato come agenti esecutivi delle politiche di austerità e delle scelte tese a disintegrare le identità culturali della popolazione negli Stati-nazione del nostro continente. Il cosiddetto populismo ha, perciò, rilanciato un atteggiamento che si riconosce in una nuova propensione al nazionalismo riportando in auge una ideologia che per decenni era stata limitata e controllata. A questo punto le “masse” , mentre da una parte criticano e osteggiano sempre più i ceti politici “politicamente corretti” e filoamericani che li hanno governati, dall’altra stanno disperatamente cercando delle elité in cui possano riconoscersi  e su cui fare affidamento. Fabbrini aggiunge, poi, che nelle aree in cui i sentimenti nazionalistici non si erano mai veramente sopiti – come nel caso del Regno Unito, della penisola scandinava e dell’Europa orientale – e in cui il sentimento della propria specificità rispetto agli altri paesi europei è sempre stata viva, si è assistito a una forte “mobilitazione populista” in particolare contro le scelte portate avanti nella politica dell’immigrazione. Il professore trae, in questo modo, una prima conclusione:

<<Così, se nell’Eurozona il populismo è divenuto sempre più nazionalista, fuori dell’Eurozona è stato il nazionalismo a diventare sempre più populista. Ciò ha finito per creare una contraddittoria coalizione tra nazionalismi e populismi.>>

E la contraddizione nascerebbe dal fatto che mentre per paesi come il Regno Unito prevale l’interesse di controllare l’immigrazione anche quando provenga da Stati membri dell’Unione, in altre nazioni, come quelle dell’est, si considera fondamentale sia l’opporsi ai “flussi” extra comunitari sia il mantenere la libera circolazione delle persone all’”interno” della Ue. Si è comunque costituita, in questo modo, una alleanza sempre più forte tra il populismo e il nazionalismo, nata dalla comune ostilità nei confronti dell’Unione europea, che induce Fabbrini a ritenere come fondamentale l’opposizione tra un sovranismo che realizzerebbe la fusione delle suddette ideologie e aggregazioni politiche e l’”europeismo” che, aggiungiamo noi, non rappresenta altro, nella fase attuale, che una appendice dell’”americanismo”. Ma siccome la nozione di populismo risulta spesso vaga e contraddittoria dobbiamo necessariamente sforzarci ancora di chiarificarne la natura. In un saggio scritto da Lorenzo Del Savio e Matteo Mameli si trova esemplificata, ad esempio la contrapposizione tra il Machiavelli dei Discorsi, le tesi politiche di Guicciardini e commenti di autori contemporanei:

<< In questo breve scritto, vogliamo spiegare la potenzialità contestatoria e anti-elitista del populismo, esplorandone le potenzialità democratiche. Il nostro punto di partenza è la lettura che il politologo John McCormick ha dato di ciò che Machiavelli dice nei Discorsi a proposito delle istituzioni della Repubblica romana, lettura contrapposta a quella cosiddetta neo-repubblicana, e ormai divenuta ortodossa, di autori come lo storico Quentin Skinner e il filosofo Philip Pettit. McCormick pone in risalto quegli aspetti che possono essere legittimamente – anche se anacronisticamente e provocatoriamente – chiamati populisti delle teorie di Machiavelli. Per Machiavelli la Repubblica romana offre un esempio, per quanto imperfetto, di un sistema istituzionale all’interno del quale anche coloro che non appartengono alle élite possono contestare efficacemente, e per di più per via istituzionale, il potere e le ambizioni delle oligarchie, la cui azione sarebbe altrimenti priva di limiti e dannosa per gli interessi delle persone comuni, oltre che per la sopravvivenza stessa della Repubblica, e quindi nel lungo termine per gli interessi di tutti, incluse le oligarchie stesse. Questo aspetto contestatorio si riscontra nelle magistrature plebee della costituzione mista della Repubblica romana, che garantiva ai semplici cittadini ampi poteri reattivi e propositivi tramite assemblee dedicate e potenti ruoli politici, in primo luogo il tribunato, a cui le élite non avevano accesso. […]  Secondo McCormick, Machiavelli è infatti democratico in un senso esplicitamente classista. L’etimologia del termine democrazia suggerisce un riferimento al popolo e al suo potere, dove il popolo è concepito non come unità astratta, etnica o nazionale che sia, ma semplicemente come insieme multiplo e variegato di tutti quelli che non fanno parte dei ranghi dei potenti, come moltitudine. Una rapida scorsa alla storia del pensiero politico mostra che, fino a tempi recenti, il termine democrazia ha sempre avuto una valenza contestatoria e conflittuale. Il termine era utilizzato principalmente dalle élite con connotazione negativa, allo stesso modo in cui oggi si tende a invocare la parola populismo. Tale connotazione negativa si trova per esempio già nell’Etica Nicomachea, dove Aristotele descrive la democrazia come una perversione della forma di governo timocratica, nella quale invece il potere è attribuito ai soli possidenti. L’uso dispregiativo del termine democrazia si ritrova inoltre nell’Italia rinascimentale, quando Guicciardini, proprio in opposizione a Machiavelli, metteva in guardia dai governi popolari e dal popolo, perché a suo avviso “è forse tanto più pestifera la sua tirannide [del popolo] quanto è pericolosa l’ignoranza, perché non ha né peso né misura né legge che la malignità”. Si ritrova anche negli scritti dei fondatori degli Stati Uniti d’America, ad esempio in Madison, che lamenta lo “spettacolo di tumulti e rivalità” delle democrazie e l’intrinseca incompatibilità tra i governi popolari e la “sicurezza personale o il diritto di proprietà”.>>

Quando si mette in evidenza l’affinità che esiste tra la cosiddetta democrazia e il cosiddetto populismo non si scopre naturalmente niente di nuovo. Studiosi seri, anche se spesso “schierati” al punto di sfiorare la “faziosità” più volgare, come Hayek e Bobbio, hanno ampiamente messo in evidenza la differenza/contrasto tra il principio liberale e quello democratico. In questo momento storico le istanze propriamente “democratiche”, che fanno riferimento alle reali esigenze della maggior parte del popolo, vengono portate avanti in maniera spesso confusa e contraddittoria da alcune elitè, definite “populiste”, che si muovono in simbiosi con alcune importanti componenti dei gruppi dominanti le quali si collegano a esse per portare avanti i propri obiettivi. I teorici del  neo-repubblicanesimo invece, a quanto pare, pur perorando la causa del patriottismo, dell’indipendenza e della coltivazione del senso civico e della partecipazione alla vita politica di tutti i cittadini temono le “situazioni estreme” che nei momenti critici potrebbero verificarsi a scapito dei diritti di libertà.

In un secondo intervento Fabbrini mette l’accento sul legame stretto, che porterebbe secondo lui quasi a una identificazione, tra i concetti e i relativi fenomeni che vengono connotati con le parole  nazionalismo e  protezionismo. Il protezionismo peraltro andrebbe considerato non solo come un programma di tipo strettamente economico ma anche culturale. La difesa degli interessi dell’industria nazionale e dell’identità etnica e culturale della nazione andrebbero di pari passo e nell’attuale contingenza sembrano diventati il cuore di quel progetto politico complessivo che lo stesso professore denomina con la parola “sovranismo”. Il docente sembra spaventato dalle conseguenze che l’elezione di Trump, con l’apertura alla Russia, e la prossima vittoria  della “destra” in Francia potrebbero comportare:

<< Comunque sia, è indubbio che l’Europa integrata può contare sempre di meno su appoggi esterni e su supporti interni. L’appoggio esterno degli Stati Uniti si sta sfaldando, il supporto interno dell’asse franco-tedesco si è inceppato. Con il risultato che la Germania rischia di trovarsi isolata all’interno stesso dell’Ue, un isolamento che a sua volta potrebbe accrescere il sentimento nazionalista del Paese. E una Germania nazionalista è una minaccia per sé stessa, oltre che per gli altri.>>

E’ evidente, l’abbiamo sempre detto, che tutte le fantasie riguardo al venir meno  dell’”appoggio” degli Stati Uniti alla Ue non hanno nessun fondamento. Si tratta, semmai, di prendere atto di mutamenti strategici  che, come ha detto La Grassa, possono portare la nuova amministrazione Usa a sviluppare azioni economico-politiche che favoriscano un ricambio nelle attuali classi politiche europee che si sono dimostrate particolarmente  inette e prive di idee. Fabbrini ricorda poi i punti principali che la Ue ha posto all’ordine del giorno per i prossimi “vertici”, che hanno il loro fulcro

<<nella politica migratoria, per «assicurare il pieno controllo dei confini esterni dell’Ue e reintrodurre la libera circolazione prevista dagli accordi Schengen». Obiettivi da raggiungere attraverso la capacità di reazione immediata dell’agenzia di controllo delle frontiere, lo European Border and Coast Guard. Nella politica della sicurezza interna, per «rafforzare i sistemi di sicurezza interni ai Paesi nella lotta contro il terrorismo». E, nella politica della sicurezza esterna, per «rafforzare la cooperazione tra i sistemi nazionali di difesa». Infine, nella politica economica e sociale, per «rafforzare il mercato unico attraverso diverse strategie (come il “Digital Single Market, Capital Markets Union, Energy Union”)».

Si tratta dei soliti “buoni propositi” attorno ai quali si faranno lunghe chiacchierate e che in questo momento di profonda incertezza politica e di crisi di consenso nei maggiori paesi  non potranno portare a nessun reale risultato. E, come non bastasse, la situazione politica risulta anche particolarmente nefasta per il funzionamento della governance attraverso le attuali istituzioni europee. Perciò Fabbrini è costretto a rilevare che il predominio, peraltro inevitabile, del modello intergovernativo – particolarmente gradito attualmente alla Francia, alla Germania e ai paesi dell’Europa del nord – ha portato, nelle odierne condizioni di crisi che richiederebbero politiche “redistributive”, al costituirsi di un quadro in cui il consenso intergovernativo ha lasciato il posto ai rapporti di forza (degli Stati più forti e grandi nei confronti degli altri).  E così infine, in maniera logica per un funzionario “intellettuale” dei gruppi attualmente dominanti, il politologo si pone con un tono quasi angosciato queste ultime domande:

<<E, a sua volta, la fusione tra i due livelli (nazionale e europeo) sta portando dall’integrazione alla disintegrazione. Se il Consiglio europeo non ha bilanciamenti esterni, e se le elezioni nazionali portassero al governo leader populisti, chi controlla le scelte del Consiglio europeo? Cosa succederebbe se gli Orban e i Di Maio diventassero la maggioranza di quell’organismo? Qualcuno, a Berlino, si pone questa domanda?>>

Mauro Tozzato 15.02.2017