LA CRISI FINANZIARIA di G.P.

 

D2507FN1La crisi dei muti subprime ha determinato grandi scosse “telluriche” sia nel Centro dell’ “Impero” sia, soprattutto, nei paesi subdominanti, fortemente legati all’economia Usa ( prima imputata per la vendita dei prodotti finanziari spazzatura, impacchettati e distribuiti un po’ in tutto il mondo), portando così a galla le innumerevoli contraddizioni dell’economia globale.

Nonostante l’ottimismo ostentato dagli operatori internazionali, all’indomani dell’immissione di liquidità da parte delle banche centrali, le difficoltà per i principali paesi occidentali non sono affatto rientrate tanto che alcuni esperti (vedere i nostri articoli tradotti dal sito LEAP/E2020), hanno parlato d’irreversibilità del quadro globale con probabile schianto, di qui a pochi mesi, di alcuni tra i più grandi attori finanziari e industriali coinvolti nelle speculazioni funamboliche degli ultimi tempi. L’Europa e la Cina, sembrano i paesi più esposti a tale cataclisma ma mentre quest’ultima continua a galoppare per crescita complessiva, il vecchio continente arranca sotto il peso della sua senilità strutturale, resa ancora più precoce dal servilismo nei confronti del paese centrale (cosa che sta completamente annullando le sue prospettive strategiche nel medio-lungo periodo).

Del resto, anche se la crisi finanziaria dovesse mandare in fumo gli investimenti finanziari cinesi, si può dire che per l’Impero di Mezzo l’effetto sarebbe quello di un "lieve" solletico dati gli 1,5 trilioni di dollari di riserve con le quali può attutirne il colpo, mentre lo stesso non vale per l’Europa dove il consesso degli idioti con un alto quoziente intellettivo (leggi i banchieri dell’UE) continua con le sue micragnose disquisizioni sul costo del denaro (da tenere almeno vicino alla soglia del 4%) al fine di combattere l’inflazione, come se tutti i mali europei si annidassero in questo indice. Tutto ciò mentre in maniera inversa gli americani s’apprestano a tagliare i tassi fino al 3,75%, ad un livello di molto inferiore a quello europeo, per dare una spintarella alla propria economia e rendere ancora più competitivi i propri prodotti.

I giornali americani sembrano comunque piuttosto preoccupati dell’approfondimento della crisi, tanto che hanno scritto di un inizio 2008 davvero pessimo per Wall Street, come non si vedeva dal 1932.

Per chiudere quella lunga fase di debacle economica ci volle una guerra mondiale e la conseguente ridefinizione degli equilibri geopolitici sullo scacchiere internazionale, con l’emergenza di due superpotenze che sostituirono la decadente Inghilterra dividendosi il globo. Probabilmente siamo ancora lontani da una eventualità così drastica ma dobbiamo essere vigili perché il mondo si va riaffacciando velocemente in un’epoca di policentrismo nella quale verranno rimescolate le carte politiche ed economiche di tutto il pianeta.

 

Gli aspetti collaterali più evidenti di questa situazione di recessione economica si materializzano negli indici riguardanti inflazione, rallentamento dei consumi e disoccupazione, aggravati ora anche dal rincaro della bolletta energetica, con il petrolio che è schizzato a quota 100 dollari al barile.

In America, il perdurare dei segni negativi davanti a questi indici sta fiaccando la fiducia dei consumatori abituati alle spese folli sotto l’incoraggiamento dell’amministrazione americana che si è fatta, sin qui, pagare i propri debiti dalle altre economie in crescita, come è avvenuto appunto con quella cinese. Tuttavia, il predominio statunitense comincia appena a scricchiolare, poiché è ancora forte il suo peso politico-militare. Gli americani non rinunceranno facilmente alle proprie prerogative e rafforzeranno la  stretta sui paesi che rientrano nella sua sfera d’influenza. Non è pensabile che gli Usa si facciano da parte e diano spazio ai paesi emergenti (Cina, Russia, India ecc.) perchè lo impongono le regole del mercato o i classici del pensiero economico.  La crisi che si affaccia sempre più incipiente è solo l’aspetto superficiale di un ribollire geopolitico che rimetterà in causa lo strapotere americano con conseguenze non ancora del tutto prevedibili.

Non si può dire di più sui tempi e sul climax di questa crisi, ma certamente si aggraverà man mano che cresceranno i conflitti (prima striscianti poi più espliciti) tra gli Usa e i paesi che si stanno rafforzando economicamente e militarmente, fra i quali purtroppo non figura l’Europa.

Tra i paesi europei l’Italia appare poi come l’anello più debole della catena capitalistica. Questa situazione di debolezza strutturale porta la finanza nostrana ad occupare ipertroficamente il “palcoscenico” della politica nazionale. Ma siccome la finanza è “orba” rispetto ai giochi che avvengono nella sfera politica tra nazioni, la cui comprensione è fondamentale per agire strategicamente, si limita solo cementare i suoi rapporti con i principali gruppi finanziari del paese dominante (sperando di ricavarne maggiore capacità d’azione) ma al prezzo di un accrescimento della sudditanza generale del paese. Sintomatico il fatto che uno dei gruppi bancari italiani più grandi, l’Unicredit, quello con la vocazione più "internazionalista", sia stato inghiottito nella crisi dei subprime perdendo 1 mld di euro.

Detto questo, occorre non farsi irretire dal puro discorso economicistico, tanto se questo proviene da una certa sinistra che messianicamente attende sempre l’imminente crollo dell’economia capitalistica a causa delle sue contraddizioni insuperabili, sia se esso è argomentato dagli inveterati esperti liberisti che ritrovano nelle regole perenni del mercato la linfa vitale per il superamento di ogni impasse. Potremmo dire, con un paradosso, che la crisi economica attuale è fortemente politica e solo tenendo presente gli sviluppi in tale sfera si potranno disegnare e prevedere gli scenari futuri.

Si può citare un esempio di questa confusione. Ultimamente si sente molto parlare di decoupling come possibile conseguenza di questa crisi. Il decoupling altro non è che un disaccoppiamento tra economie (quella trainante e quelle a questa collegate), nella fattispecie uno sganciamento dell’economia americana da quella degli altri paesi in forte crescita che ora appaiono frenati dal mastodonte Usa. In pratica, poiché il mondo può disporre in questa fase di altri “motori” economici può altresì fare a meno di quello americano che comincia a dare segni d’ingolfamento.

Ma è plausibile che gli americani si facciano scaricare dal mondo dati i rapporti di forza ad essi ancora favorevoli?

Anche dal punto di vista di una spiegazione strettamente economica il decoupling appare una chimera perché, come ha giustamente spiegato Halevi sul Manifesto del 03.01.2008, tutti i segnali parlano di un rinvigorimento dei legami finanziari tra Cina e Usa: la Cina cercherà di mantenere la sua espansione economica, altrimenti scoppierebbe catastroficamente la propria bolla interna. Ma Pechino lo farà, anzi lo sta già facendo, agganciando ulteriormente gli Usa da un lato e aumentando le esportazioni nette verso l’Europa dall’altro. Basta guardare alla politica monetaria cinese. Non vi è alcuna indicazione di «decoupling», bensì il contrario. Malgrado la notevole inflazione interna Pechino non aumenta il tasso di interesse proprio per non sganciarsi dagli Usa, che hanno ridotto i tassi (deprimendo così il valore del dollaro). Ne consegue che la Cina non può controllare la dinamica della bolla interna. Il che dice tutto sull’improbabilità del «decoupling» o sganciamento”.

Pur dando il giusto valore alla spiegazione di Halevi, che si colloca all’interno di una visione economicistica, la teoria del decoupling deve essere confutata tenendo presente il livello dei rapporti di forza e i legami politici tra gli Usa e il resto del mondo. Sotto questo aspetto c’è da giurare che il gigante statunitense farà valere tutte le sue “ragioni.”