L'ASIA CENTRALE VOTATA ALLA GUERRA CIVILE?

(I Parte, fonte diploweb.com, Traduzione di G.P.)

Riflessioni a partire dal caso tagiko

Didier Chaudet, ricercatore al centro Russia/NEI del IFRI

 

Non sono i movimenti islamici che sono da temere, in primo luogo, in Asia centrale. Certamente, questi movimenti esistono, e non si deve trascurarli. Alcuni, come il movimento islamico dell’Uzbekistan, sono stati e restano una reale minaccia. Tuttavia, questi possono sostenersi su problemi molto più profondi, che prosperano a prescindere da quelli. Se l’HT ed il MIO fossero distrutti completamente nei prossimi anni, altri prenderebbero il loro posto. Che siano islamici o no non cambierebbe nulla alla minaccia di destabilizzazione. Le tensioni economiche tra i gruppi, o la logica rapace ed intollerante sviluppata da alcune cerchie di potere, potrebbero avere nuovamente terribili conseguenze regionali. Non è certo che movimenti islamici possano approfittarne. In compenso, cosa che è più sicura, è che il caos monterebbe a scapito dei popoli della regione, e di tutte le grandi potenze. La Cina, l’India, o la Russia, hanno un interesse diretto a non vedere questi Stati autodistruggersi. Sono fornitori di petrolio e di gas, come pure mercati da conquistare. Per gli Stati Uniti, impegnati nella guerra contro il terrorismo, questi Stati sono, come il Pakistan, la prima "linea del fronte" per la stabilizzazione dell’Afganistan. Tuttavia, tutte queste potenze hanno preferito sostenere i poteri in sella, il male minore. L’idea di un grande gioco, di una concorrenza tra grandi potenze, ha prevalso sul trattamento dei problemi locali.

 

 

Nella MAGGIOR PARTE dei paesi del mondo, le nazioni dell’Asia centrale sono state scoperte grazie al film indirizzato al grande pubblico "Borat". Negli Stati Uniti, si preferisce parlare di "Stans" (i). Prova che anche i nomi degli stati della zona sembrano ancora esotici, estranei al mondo occidentale. Tuttavia, né l’Europa, né la Comunità internazionale, possono fare economia nella conoscenza approfondita della vecchia Via della Seta. I problemi di sicurezza potrebbero infatti avere lì conseguenze tragiche. Tensioni sulla Sicurezza in uno degli "Stans" potrebbero comportare un effetto domino che destabilizzerebbe tutti questi stati deboli. L’onda potrebbe anche superare la superficie dei cinque paesi post-sovietici. La Cina, in particolare nella regione del Xinjiang, con una popolazione musulmana centro-asiatica, sarebbe inevitabilmente toccata. Tensioni potrebbero anche emergere in Russia. D’altra parte, è difficile immaginare una nazione afgana stabilizzata con il caos alle porte.

Infine, una regione nella quale si trovano riserve di petrolio e di gas non trascurabili[ii) non può lasciare l’Europa indifferente. I timori di destabilizzazione sono lungi dall’essere eccessivi, in una regione in cui le linee di rottura, etniche, regionali, politiche, sono importanti. Lo scenario peggiore è stato già vissuto in Tagikistan. Dal 1992 al 1997, ha avuto luogo una terribile guerra civile. Il potere costituito, o i "vecchi comunisti", si confrontarono con un’opposizione detta islamista. La guerra fece 50.000 morti fin dal suo primo anno. Causò distruzioni colossali: si  parla di 7 miliardi di dollari di distruzione solo nel 1992. E ciò mentre il Tagikistan era una delle regioni più povere delle ex-URSS. I governi della regione vissero a lungo nel timore di una "sindrome tagika", che significava smembramento dello Stato e guerra interna. Il nostro scopo qui è di analizzare questo conflitto, per comprenderne meglio le cause. Più in là, si tratterà di porsi la questione seguente: queste stesse cause potrebbero determinare nuove guerre civili in Asia centrale, o una frizione generale?

 

RADICI DELLA GUERRA CIVILE TAGIKA, E BALBETTAMENTI DI UNA PACE FRAGILE

 

Non si tratta qui di entrare in una presentazione dettagliata della guerra civile. L’approccio descrittivo di quest’episodio della storia tagika è stato già dato più di una volta. Il nostro scopo, qui, è piuttosto di comprendere ciò che ha causato la guerra civile. Quindi di protenderci sulla situazione post-guerra civile, per sapere se ne è conseguita una vera stabilizzazione. Questi due punti ci permetteranno di accostare meglio le radici di ciò che potrebbe causare disordini regionali in futuro. Si possono rilevare tre grandi cause che hanno determinato la guerra civile:

·        problemi economici e sociali particolarmente forti

·        un regionalismo molto attivo, di fronte ad un centro piuttosto indebolito

·        l’esistenza di reali strutture d’opposizione, ed in particolare di un movimento islamico importante, il partito di Rinascita Islamica (P.R.I.).

 

Come fatto osservare da Shirin Akiner[iii), fin dagli anni ‘70, la situazione economica del paese era particolarmente difficile. Gli investimenti non erano più sufficienti, l’economia era in recessione. La conseguenza di una situazione simile è certamente, una disoccupazione importante, in particolare per i più giovani. Il problema è tanto più grave se si considera la progressione della natalità, nel 1980 il 60% della popolazione aveva meno di 16 anni [iv). Il 1980 è anche il decennio dove le mafie regionali hanno potuto affermarsi con più forza che in passato. Hanno trovato in questa massa disoccupata una manodopera ed una forza di battitura. Queste mafie hanno anche approfittato della guerra in Afganistan, i soldati ritornando dal fronte fungevano da corrieri di droga e di armi. Le cose non si sono sistemate, ben inteso, con la scomparsa dell’URSS, l’8 dicembre 1991. Dall’epoca zarista, il centro russo ha sempre fatto funzionare la zona centro-asiatica soprattutto come produttore di materie prime. In cambio, la zona europea faceva pervenire all’Asia centrale i prodotti industriali. Alcune industrie sovietiche si erano stabilite nella regione. Ma una volta che l’URSS è ufficialmente scomparsa, queste industrie sono diventate imprese locali, che hanno perso il loro unico cliente. Infatti, fin dall’inizio degli anni 90, la nuova Russia ha preferito orientare di nuovo la sua domanda su imprese russe. Da un punto di vista economico e sociale, dunque, il Tagikistan era già mal messo. Ed il regionalismo non ha fatto che riaccendere le tensioni. I Tagiki stessi si dividono in cinque grandi "gruppi di solidarietà", per riprendere l’espressione di Olivier Roy [v). Uno solo non è realmente tagiko: si tratta del gruppo uzbeko, che ha combattuto contro gli islamici. Per quanto riguarda i Tagiki, due gruppi erano "neo-comunisti" o anti-islamisti: Koulabis e Khojentis o Léninabadis[vi). Leninabad la provincia più industrializzata del Tagikistan, ha dato al paese suoi dirigenti per tutto il periodo sovietico. La fine dell’URSS ha significato una confusione dell’organizzazione politica locale. Altri Tagiki volevano approfittare dei cambiamenti per arrivare al potere. Di qui l’alleanza dei Khojentis con i Koulyabis, nel sud, tradizionalmente molto indipendenti dal centro. Lo scopo era di condurre una coalizione che rappresentasse tutto il territorio tagiko. I Khojentis sono infatti nordisti, e i Koulyabis sudisti, mentre i loro oppositori rappresentano soltanto interessi regionali. Ma lo scopo di tutti i protagonisti restava il controllo del potere. La tradizione politica sovietica in Asia centrale, che dava il potere supremo ad un solo gruppo, non ha fatto che confermare questa tendenza. È per questo che i Koulyabis hanno approfittato della guerra per accaparrarsi il potere al posto dei Khojentis. Quanto al campo "islamo-democratico", era composto inizialmente dai Gharmis, popolazione povera sempre tenuta lontana dal potere. È anche collegato a questo campo il gruppo dei Pamiris. Questa popolazione è composta per la maggior parte da sciiti ismaeliti, mentre il resto del Tagikistan è sunnita. Essi sono stati largamente sovietizzati e anche molto vicini alla corrente "démocrate". Lo scopo delle diverse elite regionali era di ridefinire le regole del gioco in termini di potere e d’accesso alle casse finanziarie. E di fronte a queste forti divisioni regionali, Douchanbé non aveva un reale controllo.

Il centro non ha potuto utilizzare la repressione per calmare le tensioni tra varie popolazioni. Tutti i nuovi stati centro-asiatici hanno potuto affermare la loro autorità sulle truppe sovietiche disposte sul loro territorio. Questo non è però stato il caso in Tagikistan. Infatti, sul territorio tagiko, la grande maggioranza degli ufficiali non era dell’etnia dominante, ma slava. D’altra parte, le truppe ed i poliziotti effettivamente tagiki hanno rapidamente scelto il campo del loro gruppo regionale.

Così, il capo della guardia presidenziale si è rapidamente dichiarato per l’opposizione, e contro l’uomo per il quale si supponeva lavorasse. La situazione è rapidamente diventata difficile poiché, di fronte a questa situazione di debolezza, l’opposizione si è rapidamente armata. Gli islamisti ed i loro alleati democratici hanno sempre negato questo fatto. Tuttavia, si constata che dopo manifestazioni e contro-manifestazioni, la violenza ha preso il sopravvento. E l’opposizione è stata capace di prendere con la forza un certo numero di punti strategici nella capitale. Le truppe russe presenti hanno dovuto intervenire per mantenere l’ordine. "Gli islamo-democratici" hanno così potuto fare parte per qualche tempo ad un governo d’unità nazionale. Ma la forza popolare associata al potere preso d’assalto dall’opposizione, i Koulyabis, non ha per tanto cessato il combattimento. La guerra civile è allora diventata interamente una lotta fino all’ultimo sangue tra gruppi regionali, che affermava un nazionalismo regionale molto forte. Una volta che Douchanbé è caduta nelle loro mani, i Koulyabis hanno continuato a considerarsi soprattutto come Koulyabis. E ciascuno ha inizialmente lottato per la preservazione della sua popolazione, per la protezione della sua regione. Di qui le atrocità condotte dalle due parti contro le popolazioni civili. Infine, una struttura è stata capace di unire nel suo seno un grande numero di persone in opposizione con la situazione politica locale. Il Partito della rinascita islamica del Tagikistan (P.R.I.) ha saputo particolarmente imporsi come membro importante dell’opposizione. Si trattava di un gruppo inizialmente completamente sovietico, sorto nel giugno 1990, a Astrakhan (Russia). Poi si divise rapidamente in rami locali. Si possono vedere cinque cause del suo successo in Tagikistan. Innanzitutto, certamente, la debolezza del governo. Il centro tagiko non ha potuto utilizzare la violenza per distruggere la sua opposizione islamista, come fece Islam Karimov.

D’altra parte, il ramo tagiko ha rapidamente affermato la sua indipendenza di fronte all’IRP russo. Quest’ultimo voleva un ramo locale che accettasse non di opporsi al governo. Ma i tagiki islamisti hanno preferito restare fedeli alla loro base locale, ed associarsi chiaramente con l’opposizione. Poiché il campo islamista è riuscito ad imporsi in grandissima parte in un gruppo regionale in particolare. Si tratta del Gharmis, la popolazione del sud a lungo distante dal potere già richiamata in precedenza. In una società profondamente segnata dalla divisione subnazionale, si trattava di una conditio sine qua non per imporsi politicamente. Gli altri gruppi d’opposizione, i democratici, non hanno apparentemente ottenuto il sostegno di una base così importante. D’altra parte, i tagiki islamisti si sono sempre mostrati di un grande pragmatismo. Non hanno mai respinto l’alleanza con gli altri membri dell’opposizione nazionalistica o democratica. Erano, certamente, essi stessi dei  nazionalisti, in particolare in uno spirito anti-uzbeko. I tagiki islamisti hanno d’altra parte dato prova, generalmente, di una grande moderazione dottrinale. Si è avuto un esempio sorprendente all’inizio dell’alleanza tra islamisti e democratici. Infatti, in occasione delle prime elezioni presidenziali dopo l’indipendenza, il P.R.I. ha sostenuto il democratico Davlat Khudonazarov. Tuttavia, quest’ultimo non aveva esitato a fare dei raffronti tra cristianesimo ed islam a scapito di quest’ultima religione[vii). Infine, l’islamismo è stato capace di collaborare, in un certo senso, con il rappresentante dell’islam ufficiale. Infatti, il più alto rappresentante del clero sovietico musulmano in Tagikistan, Qazi Akbar Turajanzade, ha dato il suo sostegno al P.R.I ripetutamente.

Avevano soprattutto in comune due punti importanti. Innanzitutto, il desiderio di islamizzazione del Tagikistan. Ma soprattutto, il desiderio di difendere i Gharmis. Dopo tutto, Turajanzade era Gharmi, come i capi del P.R.I., e le loro principali truppe, così come già detto. La guerra civile durerà durare dal 1992 al 1997. Di fatto, il periodo più violento della guerra civile fu il primo anno. Ci fu il trionfo dei capi guerriglieri "neo-comunisti" o anti – "islamo-democratici". Sono stati i capi guerriglieri, e non il presidente ad emergere in questi disordini, che fu inizialmente il principale vincitore negli anni 1990. Emomalii Rahmon è diventato presidente nel 1994 soltanto perché i capi guerriglieri Koulyabis hanno deciso così. I Léninabadis hanno accettato di perdere il potere politico in cambio di un mantenimento della supremazia economica. Desideravano anche conservare una certa autonomia di fronte ad uno Stato devastato dalla guerra. Tuttavia, nel seguito degli anni 90, il presidente Rahmon come i suoi protettori si sono soprattutto concentrati sulla conquista dell’insieme del potere. In breve, hanno reso marginali i loro vecchi alleati uzbeki, ed hanno fatto tacere il dissenso che veniva da Khojent. In occasione del processo di pace, questi due gruppi furono in gran parte resi marginali. Ciò spiega in particolare perché gli uzbeki tentarono di opporsi al governo, ed ai suoi nuovi alleati, alla fine degli anni 1990. Gli islamisti ed i neo-comunisti vennero allora a trovarsi, almeno per questo periodo, su un discorso comune anti-uzbeko e nazionalistico. Ma la riconciliazione non era pertanto definitiva. Se la pace si è instaurata, è stato per pressioni che venivano dall’esterno, in particolare dalla Russia e dall’ Iran. La minaccia di un contagio "taliban" proveniente dall’Afganistan era reale. Dopo tutto, gli Afgani hanno sostenuto i due campi fin dal 1992. Gli uzbeki del capo guerrigliero afgano Dostom hanno così sostenuto il campo koulyabi. Quanto ai moudjahidines, hanno sostenuto gli islamisti. Ad ogni modo, si trattava di truppe che andavano al di là di 600 uomini. Il timore di un’estensione del conflitto afgano era dunque già presente, ma controllabile. La logica radicale dei taliban faceva temere che le cose potessero condurre ad un aumento drammatico delle tensioni in tutta la regione.

Ma le pressioni russe ed iraniane non hanno cambiato il fatto che, per i Koulyabis, la guerra era considerata come vinta. I posti che dovevano dunque ritornare agli islamo-democratici non furono sempre dati. E sembra che le polizie locali utilizzino regolarmente i buchi della legge d’amnistia contro i combattenti dell’opposizione. Procedono regolarmente ad arresti su fatti tuttavia coperti dalla legge d’amnistia. Quest’ultima protegge dalla persecuzione tutti i combattenti dell’opposizione che non si sono resi colpevoli di fatti gravi (stupri, massacri, ecc.). Certamente, il problema sembra inizialmente venire dalle polizie locali, che devono riempire la loro quota d’arresti. I poliziotti utilizzano anche questi arresti abusivi per spillare denaro alle loro vittime. Ma sarebbe difficile fare tale cosa senza l’approvazione di persone importanti al più alto livello. D’altra parte, il P.R.I. ha avuto grandi difficoltà a vedersi ufficialmente riconosciuto in Tagikistan.

Questi problemi si accompagnano paradossalmente ad una lotta tra i Koulyabis. È, in un certo senso, il seguito naturale degli scontri. I Koulyabis di fatto, hanno messo fuori gioco tutti gli altri gruppi. La lotta si situa ora tra i capi guerriglieri koulyabis, e il presidente Rahmon. Quest’ultimo cerca infatti di ridurre il potere di tali capi in generale, che siano islamisti o koulyabis.

Questa scelta, che significa un rafforzamento dello Stato, è, certamente, una buona cosa. Del resto, i capi guerriglieri non sono ancora fortemente sostenuti dalle popolazioni che dicono di rappresentare. Molti, fra la popolazione di Koulyab, ricordano che questi capi guerriglieri non hanno fatto che arricchirsi senza aiutare la popolazione. Per ciò, la difficile lotta del presidente Rahmon può soltanto essere considerata positiva per il Tagikistan. Ma l’effetto perverso di questa lotta è che è ancora condotta secondo le stesse norme che hanno causato la guerra civile. Così, per permettere allo Stato di ricostruirsi, E. Rahmon non si sostiene in modo prioritario su impiegati competenti, ma sugli uomini del suo villaggio, Danghara. Certamente, non fa che sostenersi su  persone di fiducia, che non destabilizzeranno lo Stato. Tuttavia, questa monopolizzazione progressiva del potere attraverso una parte ancora più labile della popolazione tagika è un fattore di tensione politica. Per il momento, la memoria della guerra civile resta molto presente negli animi di tutti. È sufficiente a contenere la vecchia opposizione islamista, che per il momento, resta legalista. Permette anche all’attuale potere di controllare i mass media ad un costo più basso.

Ogni articolo critico infatti è completamente assimilato a propaganda che rinvia alle ore peggiori dell’inizio della guerra civile. È spesso sufficiente a spingere i giornalisti ad auto censurarsi.

Ma questo nuovo autoritarismo governativo potrebbe portare ad un ritorno ai problemi del passato. Si potrebbe anche parlare di un rafforzamento di questi problemi. Infatti, non è certo che i capi di guerra "islamisti" e "neo-comunisti" messi da parte siano pronti a lasciarsi spogliare dei loro poteri. Il presidente Rahmon ha ancora una lunga lotta da fare per consolidare definitivamente lo Stato tagiko. In ciò, un aiuto internazionale più importante sarebbe del resto il benvenuto. Ma soprattutto, sembrerebbe che l’autoritarismo, associato ai problemi economici e sociali, stia permettendo l’emergenza di un nuovo islamismo. Si parla della nascita di un nuovo gruppo nel feudo elettorale del P.R.I, chiamato el-Bayat (il giuramento). Hanno già condotto azioni violente, in particolare contro un Tagiko convertito al cristianesimo e diventato pastore. Sembrano funzionare sul modello degli islamisti uzbechi dell’inizio degli anni 1990, ciò significa che potrebbero essere associati agli ambienti criminali, e che mettono davanti una visione estremamente rigorosa dell’islam.

Ciò significa soprattutto che sono pronti ad imporre questa visione con la forza. D’altra parte, gruppi resi marginali come gli uzbeki vedono nascere nel loro seno approcci rigoristi ed anti-governativi dell’islam politico. Il problema della lotta per il controllo politico non è dunque completamente regolato. Ha appena cambiato scala, condotto all’interno delle stesse cerchie di potere. L’islamismo radicale sembra diventare un concorrente seria dell’islamismo moderato. Ed i problemi economici e sociali sono sempre forti. Peggiorati dalla guerra civile. D’altra parte, l’Afganistan non è ancora stabilizzato ed è sempre un grande fornitore di droga. Ciò garantisce alle mafie regionali tagike fonti di finanziamento importanti di fronte a Douchanbé. I problemi che hanno attraversato il Tagikistan, fino a portarlo alla guerra civile, sembrano dunque lungi dall’ essere scomparsi. Per altro, la Comunità internazionale non sembra avere più grande attenzione nei confronti di questo paese dalla fine della guerra civile. E ciò mentre il futuro potrebbe essere peggiore del passato. La questione è ora di sapere se il problema è soltanto nazionale, o se si tratta di un male centro-asiatico.

 

Note

 

[i] L’Asie Centrale post-soviétique compte cinq pays : le Kazakhstan, le Kirghizstan, l’Ouzbékistan, le Tadjikistan, et le Turkménistan.

[ii] Ainsi, le Kazakhstan possède l’équivalent de la moitié du pétrole russe, et plus de pétrole que les Etats-Unis.

[iii] Shirin Akiner, Tajikistan. Disintegration or Reconciliation, Londres : The Royal Institute of International Affairs, 2001, pp. 25 à 27.

[iv] Ibid

[v] Olivier Roy, « L’Asie Centrale Contemporaine », Que sais-je ?, 2001

[vi] Le changement de nom vient du fait que leur localité a été débaptisée : elle ne s’appelle plus Léninabad mais Khojend.

[vii] Shirin Akiner, op.cit., p. 35.