CONSIDERAZIONI SPARSE DI UN COMUNISTA NON DORMIENTE

gianfranco

1. Sono un comunista che non sente per nulla il bisogno di battersi il petto con sensi di colpa e che quindi non rinnega proprio nulla di quanto ha pensato e fatto. Semplicemente, ho cercato d’essere attento ai processi storici vissuti, a quanto essi mi hanno insegnato. E ne ho tratto determinate conclusioni. Quando vedo altri ancora attardati su idee che mi sembrano proprio dell’epoca dei dinosauri, sono sempre incerto tra il considerarli degli ingenui o degli autentici “falsari” del pensiero. Comunque, dirò un po’ disordinatamente quanto mi viene in mente.

Prendo le mosse da un fatto del tutto particolare. Sono rimasto tempo fa sorpreso nel sentir dire che in “Stato e rivoluzione” di Lenin c’è dell’utopismo. Io non l’ho mai notato. Un certo dottrinarismo proprio nel citare una marea di testi di Marx ed Engels, ma l’utopismo non lo vedo. E non lo vedo in “Che cosa sono gli amici del popolo”, nel “Che fare”, nell’“Imperialismo”, nella “Rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky”, ne “L’imposta in natura”; sto citando testi che vanno dai suoi 23 anni fino alla fine della sua vita. Non parliamo di “Materialismo ed empiriocriticismo”, dove si constata una notevole rigidità positivistica (un po’ alla Engels, diciamo). Nella sua lettura della “Scienza della logica” di Hegel (di cui gli mancava la terza parte, quella sul “Concetto”) interpreta la dialettica come una semplice interazione universale. E alcuni filosofi (fra cui Preve) mi avevano confermato che questa non è la dialettica hegeliana, semmai la classica logica che si usa anche nel campo delle scienze naturali.

Inoltre, Lenin parlava non solo ai contadini, ma era ottimo oratore per le masse popolari, che sapeva “infiammare”. Tuttavia, è più che noto che considerava la stessa “classe operaia” come limitata, se non guidata, alla semplice lotta tradunionistica (sindacale, redistributiva). Aveva distinto tra “classe in sé” e “classe per sé” (quella dotata di coscienza) dove però la coscienza era portata “dall’esterno”, dalla da lui definita “avanguardia della classe”, cioè il partito, che era formato “da una parte degli ideologi borghesi che sono riusciti a giungere alla intelligenza teorica del movimento storico nel suo insieme” (questa è frase di Marx ne “Il Manifesto” del 1848) con alcuni, pochi, elementi operai di levatura ben superiore alla media. E, detto francamente, nel partito bolscevico il 90% e più dei dirigenti apparteneva al primo strato; gli altri facevano parte della “base” che obbediva, ammettiamolo infine. Questa percentuale era caratteristica di tutti i partiti comunisti del mondo, perfino di quelli che vollero essere “di massa” come il Pci. E’ chiaro dove sta la “classe rivoluzionaria”? E’ la portatrice d’acqua come il famoso Astrua nei confronti di Fausto Coppi. Ci si guardi bene dall’irridere simile funzione; Coppi aveva bisogno di Astrua, eccome! Però questi sono i ruoli e le funzioni dei differenti personaggi.

Detto per inciso, io sono rimasto vicino al Pci dal 1953 al ’63; poi mi spostai verso le “Edizioni Oriente” (dirette da Mario Geymonat, figlio di Ludovico) e verso quel gruppo che poi divenne il Pcd’I (m-l). Ho partecipato alla scissione degli m-l tra “linea rossa” (Mao) e “nera” (Liu-sciao-chi) all’epoca (1966) della “Rivoluzione culturale” in Cina e infine, nel ’68, ero già per i fatti miei, ma sempre abbastanza vicino per tre-quattro anni agli m-l mentre ho senza cessa diffidato (termine assai moderato) degli “operaisti” e poi di “Lotta Continua” (essendo a Pisa in quegli anni, e fino all’inizio anni ’80, ne ho visto la nascita dalla frattura in tre tronconi del “Potere operaio” pisano, che aveva come dirigenti Sofri e Cazzaniga).

Venendo a Marx, noto che nel 1845 aveva 27 anni. Francamente voler mettere sullo stesso piano gli scritti di quei primi anni di studioso con quelli scritti poi fino ai 65 (età della morte) mi sembra azzardato e non semplicemente poco filologico. Quanto all’errore (di previsione, che però significa quindi errore nell’ipotizzare gli elementi fondamentali di una determinata dinamica delle strutture sociali), non lo svaluto né condanno minimamente. Anzi ho ripetuto più volte che l’errore è decisivo per l’evoluzione del pensiero umano e per la prassi in uso nella società di ogni data fase storica. Il detto “sbagliando s’impara” è uno di quelli che più apprezzo e seguo. Perfino “desidero” sbagliare. Solo che tutti noi tendiamo a perseverare nell’errore (altro detto ben noto: “errare è umano, perseverare è diabolico”). E’ molto naturale in noi, anche nei geni come Marx.

Qui non posso diffondermi su quanto ho spiegato infinite volte: i seguaci avevano in fondo già capito che non si andava formando il corpo dei “produttori associati” (fondamento imprescindibile della cosiddetta proprietà, cioè potere di disposizione, collettiva dei mezzi di produzione), tanto è vero che i dirigenti (non proprietari!) vennero presi per “specialisti borghesi” (cioè collocati nella classe antagonista, nemica). La “classe operaia” divenne solo quella sbrigativamente detta delle “tute blu”, quella cui Lenin assegnò correttamente una mentalità solo tradunionistica, ricorrendo ad una tipica “ipotesi ad hoc”, quella del “partito-avanguardia”, che però era semplicemente (anche nel PC cinese di Mao) una effettiva élite di rivoluzionari di professione, in possesso delle varie capacità strategiche per la guida delle masse in specifiche condizioni di disordine e dissoluzione delle istituzioni del precedente potere (tipo ciò che avvenne nel 1917 nella Russia zarista). Solo che non si prese atto che così facendo si invalidava di fatto la teoria marxiana, che andava quindi decisamente riaffrontata e riformulata. La cosiddetta proprietà collettiva dei mezzi di produzione divenne semplicemente proprietà statale (e con la fusione/confusione di partito e Stato). Da ciò fenomeni grandiosi come la velocissima industrializzazione dell’Urss, divenuta a lungo seconda potenza mondiale, e poi le successive involuzioni e i disastri fino alla miserevole fine del 1989-91. In Cina resiste al momento, perché si è dato discreto spazio e sviluppo alle forme del mercato e dell’impresa (che non hanno nulla a che vedere con il socialismo; quanto al comunismo, chiedo un po’ di decenza).

Questo il punto in cui siamo e, secondo la mia opinione, è possibile constatare dov’era l’errore di Marx (a parte la “falsificazione storica”); e usarlo per rimettere in moto il cervello e pensare qualcosa di nuovo, ammettendo che è pur sempre qualcosa di transitorio, perché si manterrà per un buon periodo di tempo allo stato di continuo ripensamento e, dunque, “ribollimento” di idee. Le epoche di transizione sono ineliminabili. Se tuttavia uno insiste ancora a pensare la vecchia disposizione delle “classi” – per di più con l’impoverimento radicale della lotta tra borghesia e proletariato (o classe operaia) a mero scontro capitale/lavoro, tipico concetto da sindacalista – è per me fuori di ogni e qualsiasi possibilità d’essere preso in considerazione; si perde solo tempo a discutere con costui. Quanto al “principio speranza”, non l’ho mai nutrito, mi è sempre sembrato un’assurdità. Comunque, male non fa, è per me una di quelle cose inutili di cui tuttavia è piena la vita. D’altra parte, io spero sempre di non morire l’indomani. Finora è andata bene; arriverà però il momento della parola fine anche su questa speranza. E siccome ricordo ben 60 anni e passa di storia, devo dire che la speranza di comunismo si è già assottigliata quasi del tutto. Della candela iniziale, siamo adesso ad un moccolo di sì e no un centimetro con una fiammella che ormai non ce la fa più a reggere. Io gli ho semplicemente dato una piccolissima (ma proprio piccola) soffiata e l’ho spenta. Non mi sento turbato dal fatto che altri non facciano lo stesso. C’è anche il detto: “chi vivrà, vedrà”.

2. Mi sembra chiaro che io non sono favorevole alle credenze. So che ci sono, non pretendo di abolirle, ma non le coltivo. Magari, chissà, ne avrò coltivate alcune tanto tempo fa. Adesso le uniche credenze che ho sono di non credere. Posso tuttavia cascarci ancora senza accorgermene. Appunto, senza accorgermene; appena me ne accorgo, corro ai ripari. Non sono mai stato religioso, non sono mai riuscito a pormi il problema di Dio con annessi e connessi (in un certo senso non sono né credente né ateo né agnostico; mai posto il problema, tutto lì). Tuttavia, diciamo che ritengo fortunati quelli che credono di avere una (diversa) vita eterna in un altro mondo, senza il peso del corpo, e possibilmente (se non si è dannati) in letizia continua. Che senso ha essere convinti che con la nostra morte tutto finisce per noi per poi credere che, tuttavia, in un futuro lontano ci potrà essere il comunismo, vissuto come società “giusta” (e Marx non lo descriveva affatto in questi termini! Non era un utopista favoleggiante). Io penso che ci sarà sempre il giusto e l’ingiusto, il buono e il cattivo, il sincero e il mentitore, il socievole e l’asociale e via dicendo. E i contrari saranno sempre imbricati insieme in ogni individuo, in ogni gruppo sociale, in ogni Stato, ecc. Anzi, uno (individuo, gruppo sociale, Stato ecc.) crede di stare agendo bene, e all’improvviso un “altro” gli getta in faccia che è ingiusto, ingannatore, malintenzionato ecc. ecc. E lo aggredisce per ristabilire la giustizia, il bene, l’equità e altre balle varie; almeno a livello di analisi e studio, lasciamole perdere! Cerchiamo di capire – sapendo che incorreremo sempre in errori che dovremo correggere indefinitamente – in quale fase storica viviamo, quali sono i contrasti tipici d’essa e soprattutto i principali fra essi. E rendiamoci conto che siamo in un’epoca di transizione, in cui continuiamo a servirci di impostazioni teorico-ideologiche (vanno sempre insieme con varia proporzione nella combinazione) di una vecchiezza preoccupante. “It’s a long way to Tipperary, it’s a long way to go”. Avviamoci verso “Tipperary”, cioè la nuova epoca, senza però sapere quando ci giungeremo. Sappiamo solo che troveremo ancora giusti e ingiusti, amici e nemici, alleati e traditori, benevoli e carogne. Non però nel semplice senso che Bepi è buono e Toni è cattivo; sono entrambi un po’ di tutto, sono cioè vivi e veri, non delle macchiette per imbonire il “poppolo”. Basta con questa mania di credere; liberatevi dei sogni. Ciò non implica per nulla affatto evitare le scelte e anche battersi per esse; tuttavia, senza tante utopie e non sostenendo, in modo manicheo, che noi siamo il buono e lottiamo contro il cattivo. Crediamo che sia meglio trovarsi in una determinata situazione piuttosto che in un’altra (e altri crederanno il contrario e ci verranno addosso; e allora via con il combattimento). Sempre così, non sarà mai finita, mai la mortifera società della “giustizia” e dell’armonica convivenza.

3. Possibile che non si capisca una cosa così elementare. C’è chi crede fermamente di avere un’altra vita, eterna, quindi che mai finirà nel nulla. E lo crede per sé, non per i propri discendenti. Invece ci sono i comunisti che credono di finire nel nulla (cosa che credo anch’io) e però sono convinti che chissà fra quanto ci sarà la società dei giusti e degli eguali. Molto altruisti, certo, pensano ai loro eredi; e chissà fra quanto. Allora diciamo che questi sono di serie A perché pensano agli altri, fra qualche secolo. I primi sono di serie B, egoisti, pensano al loro individuale benessere per tutta l’eternità. Io non appartengo né all’uno né all’altro tipo. Temo proprio che andrò nel nulla; ma del comunismo fra secoli non me ne sbatte un …… ecc. ecc.

E poi basta con questo comunismo d’accatto. Marx pensava che le condizioni sociali di base per la trasformazione del capitalismo (tramite appunto la formazione del corpo dei produttori associati) fosse già in atto mentre stava scrivendo “Il Capitale”. Io parlo di errore, ma logicamente con il senno di poi. Marx era realistico, vedeva lo sviluppo industriale (di fabbrica!) nell’Inghilterra (dove viveva e andava tutti i giorni per ore e ore al British Museum; altro che partecipare alle riunioni politiche a cianciare del meraviglioso futuro come un sessantottardo “ante litteram”). L’Inghilterra era il suo “laboratorio” e in quello vedeva ciò che poi non si è realizzato; e già ne avevano preso consapevolezza Kautsky e ancor più Lenin, che parlava apertamente dei dirigenti salariati come di specialisti borghesi e negli operai di fabbrica vedeva solo la “classe in sé”, al massimo capace di “coscienza tradunionistica”. La coscienza rivoluzionaria era portata dall’esterno, cioè dal partito in quanto avanguardia della classe; formata in gran parte dagli “intellettuali borghesi giunti alla comprensione del processo storico nel suo insieme” (frase comunque scritta da Marx nel ben noto pamphlet che è il “Manifesto” del ’48) unitisi ad alcuni (ben pochi) operai di particolare intelligenza, che comunque mai hanno occupato i primi posti nella dirigenza dei partiti (sia socialdemocratici che comunisti, della II come della III Internazionale). Alcuni sono stati figli di operai o contadini, come lo sono alcuni imprenditori capitalisti particolarmente duri e severi verso i compagni del loro padre. La nascita non è poi la condizione sociale vissuta e procacciata ai figli dai padri.

Marx era convinto che i processi in atto nel capitalismo del suo tempo (leggersi la parte finale del cap. XXIV del primo libro de Il Capitale) costituivano già le basi della prima fase, il socialismo, per il cui perfezionamento occorreva solo l’abbattimento dello Stato borghese difensore della proprietà privata dei mezzi di produzione da parte di ormai parassiti, proprietà che doveva andare collettivamente appunto al corpo dei produttori associati (“dal primo dirigente all’ultimo giornaliero”, III libro de Il Capitale). A questo punto, mentre nel capitalismo stavano, secondo il suo parere, formandosi barriere allo sviluppo delle forze produttive, queste sarebbero state abbattute con la rivoluzione proletaria che si impadroniva appunto dello Stato. E allora sarebbe esploso uno sviluppo gigantesco della produzione che avrebbe messo fine alla scarsità dei beni e avrebbe realizzato concretamente il principio comunistico: “a ciascun secondo i suoi bisogni”. Ognuno sarebbe andato nei magazzini, negli spacci o che so io a prendersi tutto quello che gli occorreva senza più prezzi (indice di scarsità); e quindi senza moneta né buoni lavoro (che ci sarebbero stati ancora nella prima fase socialistica, in cui ad ognuno doveva essere dato soltanto “secondo il suo lavoro”). Visione chiara e precisa, totalmente falsificata dalla storia.

Nel socialismo reale del XX secolo non si sviluppavano più le forze produttive (quanto meno dalla seconda metà degli anni ’50) mentre il mondo capitalistico era in piena crescita e con la terza rivoluzione industriale alle porte. Chi vuole ancora sognare, lo faccia pure. In Marx vi era, al contrario, una previsione basata sulla concretezza e materialità dei rapporti sociali e della loro trasformazione. Il comunismo da voi fantasticato è immaterialità pura. Allora perché non credere all’anima che s’invola dopo la morte? Visto che ci assicura la vita eterna. Voi non assicurate nulla di concreto, di materialmente esistente sulla terra, esattamente come le religioni. Solo che dite a tutti: morirete, non c’è nulla dopo voi, ma i vostri successori, di qui a qualche secolo, acc….. come staranno bene con il comunismo. E’ chiaro che cosa le masse hanno nuovamente scelto: le religioni dell’al di là. Al di qua ci siete voi con la vostra tristezza e malinconia per le speranze perse e cui vi aggrappate con quella che ad un “esterno” appare disperazione.

4. Non dileggio nessuno, resto solo basito per l’incomprensione continua di quanto vo’ dicendo. Allora:

a) Il comunismo è finito, morto e sepolto. E’ finito nel ’17 perché da allora tutte le rivoluzioni, guidate da partiti che si dicevano comunisti, sono state fatte dalle sedicenti avanguardie (partiti) con al seguito i contadini. Dove c’erano le masse operaie, chi ha tentato la rivoluzione (Luxemburg, ecc. in Germania) è stato massacrato ed eliminato in pochi mesi (per non dire giorni). Il socialismo detto reale non aveva nulla a che vedere con quello che pensava Marx (ma in fondo, prima del ’17, anche Lenin). Non c’era la proprietà collettiva dei mezzi di produzione, solo quella statale e di uno Stato/partito in cui un ristrettissimo gruppo dirigente comandava al 100%; e chi non seguiva quella balla del “centralismo democratico” era espulso (anche dalla vita se possibile). L’Urss si è sviluppata sotto la potente direzione del gruppo al cui vertice stava Stalin (era comunismo? Non vi viene da ridere?). La Cina si è rimessa dallo sconquasso del “balzo in avanti” (anni ’50) e della “rivoluzione culturale” (anni ’60) con Deng e uno sviluppo comandato dal centro ma affidato a imprese. Le 3000 imprese statali decotte dell’epoca di Mao sono state, con intelligenza e tempi adeguati, liquidate e trasformate in imprese che si sono affidate sempre più a “leggi mercantili”, pur con processo di trasformazione controllato e guidato, ma non certo dai “produttori associati”, invece da manager di buone capacità, quelli che Lenin chiamava specialisti borghesi. Quindi fine della balla della transizione al comunismo.

b) Le velleità anticapitaliste raccontate dai sopravvissuti della passata stagione non hanno nulla a che vedere con quanto pensava e credeva di aver visto Marx, con analisi oggettiva della società inglese della sua epoca. Siamo entrati in un’altra epoca in cui finalmente le masse popolari (sempre più segmentate e stratificate e in cui i veri operai sono una minoranza ….. sempre minore) si dedicano, e al momento con scarsa efficacia (e ciò preoccupa anche me!), a difendere le proprie condizioni di vita e di lavoro in peggioramento. Lo Stato sociale viene progressivamente intaccato. Sono assolutamente d’accordo nella difesa di queste condizioni di vita e di lavoro nonché dello Stato sociale. Basta che non mi si racconti che questa è lotta anticapitalista nel senso in cui la s’intendeva quando i comunisti sapevano che cos’era il marxismo. Difendiamoci e diciamo quello che esiste oggi, non inventiamoci fantasie che dividono e irritano chiunque ancora si ricordi effettivamente dei comunisti d’antan.

c) Viviamo dunque un’epoca di transizione; e solo per fare una similitudine, ma molto all’ingrosso, ho ricordato spesso quella tra il Congresso di Vienna (1814-15), momento della piena Restaurazione, e il 1848 che apre una nuova epoca, in cui appunto Marx pensa in un certo modo al “Movimento operaio”, modo fallito e smentito proprio dalla Rivoluzione del 1917. Finita miseramente l’epoca delle presunte rivoluzioni proletarie, finita quella dell’altrettanto presunta lotta rivoluzionaria nelle “campagne” contro le “città” (paesi capitalistici sviluppati), ho proposto di essere finalmente un po’ realisti e di dedicarsi all’analisi di fase, cioè per qualche decennio a dir tanto, senza mettersi ancora una volta a sciorinare ricette per abbattere ….. quale capitalismo? Parliamo indifferentemente di capitalismo riferendoci a quello vissuto all’epoca di Marx, a quello delle due guerre mondiali, a quello emerso con lo strapotere degli Stati Uniti. Siamo molto ignoranti (me compreso, sia chiaro) e continuiamo a straparlare senza un minimo di cognizione su nulla. Allora riprendiamo da quelle che sono adesso le contraddizioni più acute. Ci sono quelle tra etnie e quelle tra religioni in primo piano. Ho avanzato l’ipotesi che queste vengano però accentuate e sfruttate nell’ambito della tendenza degli Usa a voler dominare incontrastati il mondo, mentre si vanno sviluppando potenze che via via dovrebbero contrastarli con crescente forza.

d) Non sostengo che la lotta tra Stati ha preso definitivamente il posto di quella tra classi o tra dominanti e dominati (e già questa distinzione è frutto di mancanza d’analisi dei rapporti sociali). Le classi sono tramontate perché si basavano – e qui do a Marx piena ragione – sulla proprietà o meno dei mezzi di produzione. Questa caratteristica fa oggi ridere se la si vuole usare per definire ancora i rapporti sociali di un capitalismo del tipo statunitense (da me detto “dei funzionari del capitale”, dizione che non ricopre quella di “capitalismo dei manager”, anche se tende a ricomprenderla). Lasciamo stare le classi e seguiamo meglio l’evolversi delle modificazioni strutturali dell’odierna formazione sociale. Intanto però – quindi per questa fase storica che non so quanto durerà, ma è certamente transitoria – teniamo conto di questa lotta multipolare tra Stati/potenza che usano le etnie, le religioni, ecc., cercando di orientarle per quanto possibile ai loro scopi; ma certamente con notevoli perdite di controllo, che sono a mio avviso messe in conto.

Volete quindi capire infine che ciò che dico lo dico con perfetta coscienza della sua assoluta transitorietà? L’unica cosa di cui sono convinto è che tale transitorietà è necessaria, che voler predicare teorie generali e presunte definitive – e per di più quelle di millant’anni fa, decrepite e orrorifiche – è solo frutto di mentalità dogmatica, che cerca sicurezza perché non si è capaci di vivere nella dura fatica di un nuovo pensare, sapendo che stiamo rimuginando cose labili e passeggere; eppure utili come passi di transizione in un’epoca di completo subbuglio, in cui tutte le precedenti certezze sono terribilmente sconsolanti. Si perde tempo e si rincoglioniscono ancor più i giovani, che già questa scuola merdosa in mano alle “sinistre” umanitarie (solo perché ipocrite) sta riducendo ad analfabeti. Non sto pensando ad alcuna teoria generale da proporre in alternativa al marxismo.

Si può infine essere capiti?

5. L’insegnamento di Marx, che non a caso non intendo dimenticare, è di aver analizzato la società del suo tempo (e nel suo “reparto” da lui ritenuto il più avanzato, l’Inghilterra, dove fra l’altro ha vissuto a lungo). E non l’ha analizzata da pasticcione eclettico come tanti intellettuali “rivoluzionari”. Dopo aver liquidato la sua precedente ideologia in quel mare di appunti (che lui non aveva alcuna intenzione di editare perché gli erano appunto serviti per spazzare via le sue superate concezioni) pubblicato ben dopo la sua morte come “Ideologia tedesca”, egli si è dedicato con grande pazienza allo studio dell’economia politica (classica) inglese, di cui restano altre migliaia di pagine poi raccolte e pubblicate da Kautsky e infine risistemate come “Teorie sul plusvalore”. Egli interpreta la realtà inglese del suo tempo utilizzando proprio quella teoria, cui apporta una “piccola” variante: la distinzione tra lavoro (fonte del valore di un prodotto) e forza lavoro, in quanto energia (manuale e intellettuale) contenuta nella corporeità umana e che ha essa stessa valore in base al lavoro speso per produrre quanto necessario alla sua sussistenza e riproduzione (non certo in senso biologico, bensì storico-sociale). Da questa “piccola” (detto in senso ironico evidentemente) variazione derivano tutte le migliaia di pagine de “Il Capitale” e altre opere (però minori). Solo che il “nostro” ne trae determinate conclusioni in un certo senso necessitate dall’applicazione di QUELLA teoria a QUELLA determinata realtà che egli vedeva come tipica dell’Inghilterra; e che per lui annunciava quanto sarebbe avvenuto in breve in tutto il mondo, allargandosi a macchia d’olio. Qui s’inserisce quello che definisco “errore” dopo ben un secolo di sfrenata ideologia “operaia”, che ha nei fatti abbandonato Marx in più di un punto pur credendo di restargli sempre fedele.

In realtà, l’“errore” non è stato di Marx, ma dei suoi successori che, con tutta tranquillità, hanno riconosciuto (di fatto ma non in teoria) la non formazione del corpo dei produttori associati (“dal primo dirigente all’ultimo giornaliero”, dall’ingegnere all’ultimo manovale); hanno dunque separato i dirigenti dai veri e propri operai di fabbrica. Soltanto questi sono stati considerati la “classe rivoluzionaria”, provocando un corto circuito immane. I soli operai di fabbrica (senza nemmeno l’unione con i dirigenti, in un certo i possessori delle “potenze mentali della produzione”) non avevano alcuna capacità egemonica e di direzione di una profonda trasformazione (rivoluzionaria) della società capitalistica. E Lenin lo riconobbe apertamente quando affermò che la classe operaia (così ristretta) giungeva al massimo ad una considerazione tradunionistica (sindacale) dei problemi intrinseci allo sviluppo del capitalismo; sostenne però che essa rimaneva “in sé” il perno della futura rivoluzione.

Per fortuna, egli (dopo il ’17), e più tardi Mao, ecc., ripiegarono sui contadini e realizzarono delle rivoluzioni, da cui non è certo nata alcuna società socialista e tanto meno comunista. Tuttavia, io sto dalla parte di quelle rivoluzioni, che adesso hanno però dato tutto quello che potevano dare; e ciò che ne è risultato non ha più nessun significato anticapitalistico come lo agognano ancora i comunisti residuati. Accortomi di tutto questo bailamme, ne ho semplicemente preso atto, ho cercato di coerentizzare sempre meglio quanto teorizzato da Marx in modo da capire dove si è creata la “frattura”, che gli ha impedito una corretta previsione della dinamica capitalistica successiva così diversa da quella inglese (borghese) della sua epoca. E ho tenuto proprio conto dell’insegnamento fondamentale di Marx, sto cioè cercando di analizzare la società nella sua fase storica attuale.

Per il momento, anche a causa (io credo) degli enormi ritardi accumulati in senso puramente ideologico (e quasi “mistico”) con cui mi scontro, si tratta di un’analisi “in progress” con tutte le incertezze del caso. Questo comunque ho fatto, in completa fedeltà all’insegnamento marxiano. Continuare a declinare mille volte il termine comunismo o anche solo anticapitalismo, non fa fare un solo passo avanti nell’analisi della fase attuale e delle diverse formazioni sociali esistenti in varie aree mondiali. Io vivo qui e di fatto sono influenzato, nell’analisi, dalla società detta “occidentale”. Anche perché la stessa teoria di Marx, da cui pur sempre parto, è “occidentale”, prende le mosse dall’idea che qui fosse il centro del futuro sviluppo della società, che il capitalismo si sarebbe da qui allargato a tutto il mondo uniformandolo.

Diciamolo pure: Marx era convinto che la vera civiltà progressiva fosse la nostra, le altre erano solo in ritardo, addirittura ormai statiche. Io non la penso così, ma la teoria utilizzata nell’analisi si rifà a Marx, nutrito di quelle idee. Lo so e quindi mi rendo conto dei miei limiti. Solo per questo, tuttavia, non perché ho abbandonato l’intento di abbattere il capitalismo, un’ossessione di nessun significato conoscitivo. Analizzo, come posso, la società del mio tempo e della mia area mondiale. Sono convinto che siamo in transizione verso una nuova epoca storica non ancora ben prevedibile. Non è conoscibile in modo più esaustivo soltanto perché lo si vuole. I desideri restano tali; e assai poco realistici. Quello che non si vede, non si deve dire. Atteniamoci a quanto sembra (SEMBRA) abbastanza realistico.

5 bis. mi interessano gli studi condotti con un apparato teorico alle spalle e non semplicemente intrisi di empirismo sociologico spicciolo. Bene o male io ho un apparato teorico che è di fatto quello di Marx, con la variazione: dalla centralità della proprietà (non in senso giuridico) dei mezzi di produzione (che comporta un ben preciso indirizzo dato all’analisi dei conflitti nella società nella fase storica del capitalismo; per Marx quello inglese) alla centralità del conflitto di strategie per la supremazia, che implica una diversa analisi delle lotte in corso nel capitalismo d’ultima fase (ultima finora). Certamente la variazione apportata implica drastici rimaneggiamenti dell’apparato teorico marxiano; e rimaneggiamenti in corso d’opera, non “precipitati” nella pretesa di una teoria generale della trasformazioni sociali come si trova ne “Il Capitale”. Tuttavia, un certo apparato teorico esiste, mentre certi sociologi si limitano alla rilevazione empirica di date fattualità. Studi a volte interessanti, utili, ma qualcosa di diverso da ciò che cerco io.