L’onta libica

225px-Presidente_Napolitano

 

La vicenda dell’attacco alla Libia di Gheddafi del 2011 attesta non solo l’inettitudine di tutta la classe dirigente italiana a svolgere le sue funzioni ma anche la sua attitudine intrinseca a tradire gli interessi nazionali. Il tradimento è un fatto oggettivo che può concretarsi sia con una decisione presa ma anche con una non presa, da parte di chi ha in mano le redini del potere. Chi occupa un posto di responsabilità statale e non adempie ai suoi compiti può trasformarsi in un traditore per il fatto esclusivo di essersi sottratto alla scelta o di aver sbagliato opzione di fronte a questioni dirimenti per la salvaguardia nazionale. In questo episodio in particolare, non siamo soltanto in presenza di errori volontari ed involontari ma di omissioni belle e buone che hanno mutilato la politica estera del Paese, compromettendo anche la sua sicurezza interna. I media si accaniscono contro i furbetti del cartellino mentre nelle istituzioni abbiamo assenteisti politici cronici e recidivi che complottano contro lo Stato.
Da questo punto di vista ha ragione Salvini, però andrebbero processati tutti i vertici di quella fase storica, non solo l’ex inquilino del Quirinale. Almeno se quello che racconta Schifani, all’epoca degli avvenimenti Presidente del Senato, è vero. Afferma Schifani: “Eravamo all’Opera di Roma. Muti dirigeva il Nabucco. Alla fine del primo atto, il presidente della Repubblica ci chiese di trasferirci in un salottino riservato…il capo dello Stato, il sottoscritto, il premier Silvio Berlusconi, il ministro della Difesa Ignazio La Russa, il consigliere Bruno Archi, Gianni Letta e Paolo Bonaiuti…Archi ci mise in contatto con il ministro degli Esteri Franco Frattini che era a New York. E Frattini ci dipinse un quadro drammatico…L’Onu aveva votato una risoluzione che istituiva la no fly zone sula Libia. Ma soprattutto Sarkozy ci aveva fatto sapere che l’indomani avrebbe annunciato al mondo l’intervento militare e l’invio dei Mirage su cielo di Tripoli…Il momento era assolutamente drammatico, forse il più drammatico della mia presidenza. Sarkozy ci poneva davanti a una sorta di fatto compiuto: intervenire con la coalizione, che comprendeva Londra e Washington, oppure rimanere ai margini. E ci dava un ultimatum, poche ore per decidere…Una situazione complicata e fu in quel clima di ansia che Napolitano fece il passo decisivo…Napolitano disse testualmente: L’Italia non può rimanere fuori…Berlusconi soffriva, era visibilmente contrariato, stava quasi male. Si capiva benissimo che non condivideva per niente quella posizione…ma il presidente, che era anche il capo supremo delle Forze armate, con quell’ intervento chiuse la discussione. Pollice verso, partita finita.”

Ciò significa che da un lato c’era un Presidente della Repubblica che premeva per l’aggressione di uno Stato col quale avevamo siglato patti di amicizia e di collaborazione economica e dall’altro vi era un Premier incapace di impedire il disattendimento degli accordi siglati con un gesto forte di dissenso, come le dimissioni. Berlusconi, anziché rinunciare all’incarico, ha asseverato le iniziative belliche contro la Libia rendendosi complice del Colle. Le macchie indelebili sono, dunque, ampiamente distribuite tra i protagonisti citati. La cosiddetta “sofferenza” personale di B. non è un’attenuante, semmai è da considerarsi aggravante, perché egli, pur avendo compreso la gravità della situazione, il disonore che ne sarebbe derivato per l’Italia e i rischi internazionali connessi, non si è opposto ai guerrafondai ma si è unito a loro. Se oggi dalla Libia giungono sulle nostre coste migliaia di disperati, ai quali si mescolano anche terroristi, se abbiamo perso affari strategici in quella terra per miliardi di euro e se il caos nel mediterraneo ci minaccia così da vicino, è colpa di tutti loro. In solido. Lo scaricabarile non laverà l’onta. I danni provocati alla nazione saranno un macigno sulla loro memoria. Il Tribunale della Storia non distrugge i nastri.