GLI AVVOLTOI SULLA RUSSIA di G.P.

Il solito servaggio giornalistico sta lanciando alti lai sui pericoli involutivi della democrazia in Russia, perché, a suo dire, nelle prossime elezioni legislative verrà sancita la vittoria plebiscitaria del partito "Russia Unita" ma sotto  pesanti condizionamenti. E quali sarebbero questi condizionamenti? Posta così la questione è facile stimolare, nell’opinione pubblica occidentale, lo spauracchio di minacce e di manganellate nei seggi elettorali o per le vie delle città. Ed invece, la colpa di Putin sarebbe quella di aver commissionato sondaggi su misura e di aver avviato una campagna battente in tutti gli angoli del paese. Insomma nulla di meno di quello che accade in ogni democrazia occidentale. E allora dov’è il problema? Il fatto è che secondo gli osservatori “indipendenti” dell’Osce la Russia è solo una simil-democrazia ed in una simil-democrazia questo modo di fare equivale ad un imperio. Tanto è bastato per farli desistere dai loro compiti, hanno cioè deciso che nessun esperto dell’organizzazione si recherà in Russia per monitorare le elezioni di domenica.

Dietro queste speciose affermazioni vi è, in realtà, la volontà americana di screditare la Russia e le sue istituzioni perché il potere appare saldamente nella mani di Putin e del suo partito "Russia Unita", entrambi forti di un vasto appoggio popolare. E tutto ciò non è affatto un bene per il governo Usa.

 Il motivo di tanto accalorarsi non è certo il presunto tentativo di Putin di voler ripristinare una dittatura (anche queste vanno benissimo agli americani se si piegano al loro volere), ma quello di non riuscire più a tenere sotto controllo questo paese.

Eppure il nuovo “zar” di Russia si è permesso solo di ribadire al suo popolo un concetto semplice e lapalissiano: “per continuare a crescere economicamente e per vivere in maniera dignitosa non bisogna far ritornare al potere coloro che hanno già tentato una volta di governare questo paese e che oggi vorrebbero cambiare i piani di sviluppo della Russia, invertendo il corso sostenuto dal nostro popolo e far tornare i tempi dell’umiliazione, della dipendenza e della disintegrazione”. Ovviamente queste dichiarazioni d’indipendenza danno fastidio soprattutto a chi sperava di neutralizzare la Russia una volta per tutte.

 L’ex colosso sovietico, grazie alle politiche putiniane, è effettivamente fuoriuscito da un’epoca di dissoluzione e di rapina capitalistica, imposta dalle potenze occidentali dalla fine della guerra fredda, nel ’91-‘92, fino all’affacciarsi di Vladimir Putin nella vita politica russa, nel 1999.

La colpa imperdonabile del gigante dell’est è stata quella di aver osato contrapporsi, per più di 70 anni, all’unico ordine mondiale “desiderabile”, quello delle formazioni capitalistiche ad egemonia statunitense.

Durante il regno dell’ubriacone El’cin, la Russia era sprofondata nel caos più completo, ma all’epoca il coro  degli analisti politici ed economici occidentali era concorde nell’affermare che si trattava del prezzo necessario da pagare per la “virtuosa” opera liberalizzatrice dei nuovi governanti, i quali stavano assolvendo al compito storico di traghettare il paese verso la modernità. Peccato che quegli uomini di “rinnovamento” venivano tutti, o quasi, dai vertici della nomenklatura sovietica e si trattava pure dello strato più corrotto del vecchio potere.

Ben presto divenne chiaro che la “sana” competizione capitalistica, da impiantare a dosi omeopatiche sulla società russa, era solo un paravento per scatenare gli animal spirits oligarchici e mafiosi autoctoni, subordinati a quelli più famelici del cosiddetto “mondo libero”. Ciò che si nascondeva dietro le ricette liberiste concordate tra nuovi poteri economico-finanziari russi ed organismi internazionali, come il FMI o la Banca Mondiale, era la svendita dei "gioielli nazionali" (imprese energetiche in primo luogo) ai  poteri mafiosi cresciuti all’ombra della burocrazia socialista, i quali agivano in combutta con Washington. Ma il vero obiettivo degli americani era quello di portare il nuovo governo di Mosca a decretare lo smantellamento degli arsenali militari e nucleari, rinunciando, altresì, ad alcuni territori strategici  che di lì a breve sarebbero entrati nell’area d’influenza americana.

La penetrazione statunitense ed occidentale ad Est sancì la fine dell’economia statizzata senza che venissero attivati ammortizzatori economico-sociali adeguati a sostenere l’impatto di questa adesione repentina ai meccanismi stritolativi del mercato globale. Ne seguì un grave sfilacciamento del tessuto connettivo (sociale, politico, economico) della Russia. In poco tempo tutto il paese si ritrovò in pieno medioevo. Questi piani hanno però subito una battuta d’arresto (speriamo lunga) grazie alle politiche putiniane di arginamento della corruzione interna che hanno costretto i poteri oligarchici e mafiosi ad abbandonare il paese. Oggi questi delinquenti trovano rifugio in molte nazioni europee dalle quali continuano a sferrare attacchi contro la Russia ricevendo l’appoggio di tutta la stampa occidentale.

A causa del rinato slancio nazionalistico russo gli americani si sono visti costretti a cambiare strategia per ben due volte, dapprima tentando di integrare la Russia nei vari organismi internazionali attraverso i quali vengono irreggimentati i rapporti tra le nazioni nella direzione di un maggior predominio Usa, in seguito, quando hanno compreso che l’ex agente KGB non era così stolto da farsi irretire dai loro falsi discorsi imperiali, hanno puntato ad un accerchiamento militare e politico, inglobando nella propria sfera d’influenza quei paesi che tradizionalmente avevano fatto parte della cintura protettiva sovietica. Le rivoluzioni colorate nelle ex-repubbliche del patto di Varsavia e il progetto di scudo spaziale hanno precisamente questo scopo, si tratta per gli Usa di affermare la propria influenza alle porte della Russia, al fine di impedirne i movimenti geostrategici. In ragione di ciò la creazione di un clima ideologico favorevole permette alla nazione predominante di agire con le mani più libere.

Oggi si è scelto un ex campione di scacchi per dimostrare quanto la democrazia in Russia sia malata. Peccato che nonostante il gran rumore sulle manifestazioni di Kasparov e del suo piccolo movimento “Altra Russia”, gli aderenti e i simpatizzanti non superino qualche centinaio di persone, troppo poco per parlare di persecuzione generalizzata. Kasparov fa costantemente la spola tra Washington e Mosca prima di "immolarsi" sull’altare della democrazia. L’ultima volta, nonostante la sfilata del suo movimento fosse stata autorizzata per un percorso determinato, ha voluto mostrare i muscoli portando i suoi fin sotto i palazzi delle istituzioni. Di fronte a tale atto provocatorio gli Omon (la polizia russa) hanno reagito picchiando i manifestanti e arrestando Kasparov. La stampa europea e americana si è detta scandalizzata per tale modo di fare ma mi pare che anche da noi, se i cortei non seguono i tragitti preventivamente concordati per motivi di ordine pubblico, si finisce con teste rotte ed arresti indiscriminati.

Quando Kasparov è uscito di prigione ha trovato una pletora di giornalisti, quasi tutti stranieri, ad aspettarlo. Volevano sentire dalle sue parole quanto fosse cattivo il potere russo. Lui ha “obbedito” rilasciando dichiarazioni di fuoco, arrivando persino a sostenere che la popolarità di Putin è solo apparente.

Il bravo Kasparov si è guadagnato la stima Washington e qualche altro biglietto aereo per gli Stati Uniti.