MULTIPOLARISMO E “GRANDE CONFUSIONE” SOTTO IL CIELO, di GLG

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1. Per circa mezzo secolo, dopo la seconda guerra mondiale, si era stabilizzato un sistema globale bipolare. Un polo era quello del capitalismo, l’altro era appunto quello del (preteso e inesistente) “socialismo”. Alcuni lo dicevano comunista (ancor oggi qualche “sopravvissuto” parla con improntitudine di Cina comunista o Cuba comunista, ecc.). In realtà, in quei paesi erano al potere partiti denominati comunisti, ma nessuno di essi sosteneva certo di aver condotto la società al comunismo; ci si limitava (da sempre) a pretendere d’essere in fase di costruzione del socialismo (l’ormai ignoto gradino inferiore del comunismo secondo Marx e il marxismo d’antan, anche questo ormai ridotto ad un fantasma). Accanto ai due poli vi era una sorta di contorno rappresentato dai paesi detti “non allineati”; che tutto sommato facevano parte del  cosiddetto “Terzo Mondo”, una buona parte del quale era ancora sottoposto al colonialismo di vecchio stampo (anglo-francese) ma soprattutto al neocolonialismo di marca statunitense. Tra questi “non allineati” vi erano anche paesi importanti (appena liberatisi dal colonialismo come, ad esempio,l’India), ma tutto sommato non troppo influenti rispetto alla divisione del globo tra le due cosiddette superpotenze. L’altro grande paese asiatico, la Cina, apparteneva ufficialmente al campo“socialista”; aveva senza dubbio una notevole autonomia (e già l’inizio di una buona potenza), ma non poteva alterare in modo sostanziale il bipolarismo effettivo.

Ci fu semmai assai presto – congresso degli 81 partiti comunisti a Mosca nel 1960 – un allontanamento tra i due colossi del campo socialista, Urss e Cina, che divenne rottura dopo la crisi di Cuba (ottobre 1962) e lo scambio di lettere tra i CC dei due partiti (Pcus e Pcc) nella prima metà del 1963. Poi venne la rivoluzione culturale cinese (1966-69) che accentuò il distacco, rendendo i due partiti e i due paesi autentici nemici. Su questo contrasto si inserirono gli Usa, soprattutto per “merito” di Nixon – un presidente negletto e su cui bisognerebbe rivedere il giudizio storico perché, almeno oggettivamente, è stato più importante dell’osannato Kennedy e ha preparato il terreno a Reagan, considerato a torto l’affossatore del campo socialista (assieme a Papa Wojtyla, altro luogo comune per pigri mentali) – e la situazione, già con Mao ma ancor più con Teng, divenne tale che l’Urss (il cosiddetto socialimperialismo) fu considerata dalla Cina il “nemico principale” rispetto all’imperialismo statunitense, con cui spesso si “intrallazzò” (non è ovviamente il termine più adatto) a spese dell’Urss.

Generalmente, si sottovaluta quest’aspetto decisivo dell’indebolimento del campo socialista (sempre guidato dai sovietici), mettendo in luce erroneamente solo la corsa al riarmo nella quale l’Orso russo avrebbe perso. Altra questione che dovrebbe essere sottoposta a revisione storica è la vittoria della guerriglia vietnamita. Nixon (con alle spalle Kissinger, il vero personaggio centrale di certe operazioni), in grado di capire che le strategie vincenti (alla lunga e contro il nemico principale) richiedono anche l’accettazione di certi “passi indietro”, fece bombardare pesantemente la stessa Hanoi nel Natale 1972, giungendo poi agli accordi di Parigi del gennaio 1973. Gli Usa si impegnarono a ritirare le loro truppe, che a fine anni ’60 erano giunte al mezzo milione di soldati. In effetti, lo fecero e quasi completamente, ma dal 1972 era partito il watergate che costrinse Nixon alla resa due anni dopo e che non fece alla fin fine rispettare pienamente gli impegni di Parigi a nessuna delle due parti. Nel 1975 (30 aprile) il nord Vietnam entrava a Saigon, finiva la lunga guerra e il paese fu unificato sotto la direzione del partito comunista.

In effetti, terminato il lungo conflitto – che ovviamente era stato combattuto unitariamente dalle diverse fazioni del partito comunista nordvietnamita e con il decisivo appoggio sia dell’Urss che della Cina – la fazione filosovietica, sempre maggioritaria, prevalse definitivamente su quella filocinese; il che solo apparentemente avvantaggiava l’Urss, mentre invece allargava il solco tra le due potenze “socialiste”. Ci fu poi, nel 1979, la breve guerra cino-vietnamita (durata un mese tra metà febbraio e metà marzo) provocata dall’invasione della Cambogia da parte del Vietnam con deposizione del governo dei Kmer alleato dei cinesi. Nel dicembre dello stesso anno l’Urss invase l’Afghanistan, dando inizio ad un conflitto decennale che indebolì l’Urss (costretta al ritiro nel 1989) e favorì un qualche avvicinamento della Cina agliUsa (e al Pakistan, sempre stato relativamente favorevole ai cinesi anche a causa della mai cessata ostilità con l’India, pur essa in contrasto con il grande paese asiatico “socialista”).

Quanto appena accennato – e sarebbe invece piuttosto importante rifare bene la storia di quel periodo cruciale serve solo a ricordare che, malgrado il dissidio russo-cinese foriero della successiva dissoluzione del campo socialista, si ritenne per mezzo secolo il mondo diviso ormai permanentemente in due, tra Usa e Urss. Fu un periodo di sostanziale pace nel mondo capitalistico avanzato; pur parlando, e l’ho sempre ritenuto uno straparlare, di “equilibrio del terrore”, ovviamente atomico. Le guerre, pressoché continue in varie parti del mondo, avvenivano sostanzialmente nelle aree di confine (e frizione) tra i due campi. In realtà, non esisteva alcun socialismo (figuriamoci il comunismo), bensì forme sociali spurie ancor oggi conosciute inadeguatamente (se ne sono fornite innumerevoli analisi contrastanti). L’interpretazione, che fu anche (ma solo in parte) del mio Maestro francese Charles Bettelheim, di un capitalismo di Stato (e di partito), non sembra più molto convincente. Più perspicua mi sembra invece la tesi bettelheimiana secondo cui le forme (capitalistiche) della merce e dell’impresa vennero durante quel periodo, per motivi fondamentalmente politici e ideologici, soffocate, represse, ma non superate nei loro effetti sul sistema dei rapporti sociali. Fu in definitiva provocato un reale irrigidimento del sistema di questi ultimi con effetti deleteri sulle capacità di sviluppo di quel campo e sulla crisi che infine lo travolse. Anche in questo caso, dovremmo però approfondire storicamente cosa è realmente accaduto, mentre si resta alle tesi più banali e del tutto superficiali.

In effetti, forte era la credenza che il partito, pur dominato da un’oligarchia da lungo tempo cristallizzatasi, dovesse mantenere – in quanto avanguardia della classe operaia, quella che si sarebbe emancipata dallo sfruttamento, emancipando così l’intera società mondiale dallo stesso e dalla divisione in classi – il potere assoluto, pianificando l’intera economia. Non posso qui elencare i motivi (teorici ma con risvolti pratici) per cui la pianificazione, attuata dal blocco sociale che si era andato solidificando, riusciva solo a porre ostacoli allo sviluppo, dopo il primo periodo staliniano di impetuosa accumulazione e di creazione di una potenza industriale (e militare) con però basso livello di consumi e di tenore di vita per quanto riguarda la netta maggioranza della popolazione. Il periodo brezneviano – successivo ai fallimenti di quello kruscioviano, una sorta di “pregorbaciovismo” – fu di stagnazione, con degrado delle strutture sociali: si pensi all’istruzione e sanità, in un primo tempo orgoglio dei paesi socialisti, alla diminuzione notevolissima della media della vita, nettamente innalzatasi in precedenza. E via dicendo.

Infine si giunse al periodo gorbacioviano, un “vorrei ma non posso”, con il tentativo di affermare una contraddizione in termini: il socialismo di mercato. La Cina pure usò questa dizione, ma solo come mascheramento ideologico; in realtà, diede pieno sfogo a forme economiche di tipologia capitalistica, mantenendo solo una direzione centralizzata (con ampie autonomie in sede locale, anche se per le decisioni “minori”, non per quelle nazionali). In definitiva, si trattò di quella centralizzazione che – sia pure tenendo conto delle differenze culturali e di lunga tradizione storica – ha poi cominciato ad attuare la Russia nella sua fase di netta ripresa con l’avvento della direzione putiniana (dopo i disastri provocati da Gorbaciov e Eltsin) e, mi sembra, con risultati tutto sommato soddisfacenti, pur se ancora insufficienti a rilanciare il paese come grande potenza in aperto confronto con gli Stati Uniti.

2. Quello che ho cercato di delineare in modo molto succinto serve alla conclusione che più mi interessa: malgrado non esistesse il campo socialista, o meglio non esistesse il socialismo in tale campo, esso fu realmente antagonista di quello consideratocapitalistico tout court, si visse e fu vissuto come alternativa che le classi dominanti “occidentali” – ancor oggi tanto poco consapevoli di quanto accaduto da trattare spesso la Cina come socialista – intendevano stroncare; e alla fine ci riuscirono. Da quel contrasto semisecolare risultò però intanto l’imponente decolonizzazione che – pur non avendo portato (nemmeno essa) ai risultati perseguiti da certe forze dette antimperialiste ormai del tutto fallimentari – ha in ogni caso cambiato la faccia del globo. L’Urss, in nome della mera politica di potenza e dell’ideologia (della costruzione del socialismo come esempio da seguire per le masse dei paesi capitalistici), fu comunque prodiga di aiuti, soprattutto ma non solo militari, a Cuba, Egitto, ecc.; aiuti non corrispondenti al classico concetto di imperialismo, che implica non solo la forza politica e militare, bensì anche un ritorno economico: non solo per lo Stato ma pure per le imprese investitrici di capitali.

Se si guarda però all’aspetto principale del termine imperialismo, cioè alla conquista (o mantenimento) di sfere di influenza, si può allora parlare di (social)imperialismo sovietico. Tuttavia, si trattò in fondo di un’azione di prevalente contenimento dell’aggressività altrui, poiché a partire dal 1945 gli Stati Uniti – dopo aver accettato, per eliminare definitivamente dal novero dei competitori Inghilterra e Francia (oltre alle sconfitte Germania e Giappone), gli accordi di Yalta con la loro divisione del mondo in due; accordi che non a caso Churchill, avendo capito come sarebbe andata a finire, avrebbe voluto far saltare (e qui sarebbero pure da rivedere molte “bucce” riguardo ai precedenti “segreti contatti” in piena guerra tra Inghilterra e Germania) – hanno tentato, con varia fortuna e in definitiva fallendo a mio avviso definitivamente a partire dall’inizio di questo secolo, di affermare globalmente quel monocentrismo, che era stato invece sempre pienamente in atto nel “campo capitalistico occidentale” (Giappone compreso) durante il sistema bipolare.

Per quasi mezzo secolo (1945-1989) il mondo apparve appunto cristallizzato, e tutto il nostro orizzonte politico fu orientato alla permanenza indefinita di tale situazione. Forse però qualcunonei luoghi nascosti dove si preparano le vere strategie politiche di potenza; altro che quelle economiche sempre poste in primo piano per ingannarci ne sapeva un po’ più di noi, vedeva cambiamenti possibili. E pure qui, sarebbero da spiegare molte mosse durante la breve parentesi di Gorbaciov, liquidatore del cosiddetto Impero sovietico, per un periodo in contatto pure con l’allora segretario del partito comunista cinese (Zhao Ziyang) per ottenere certi effetti (in definitiva dissolutivi come quelli che si produssero nel 1991 in Urss) anche in quel paese, dove invece certi sommovimenti furono stroncati nella Tienanmen (e il segretariocinese in questione prontamente destituito).

Quello che mi preme rilevare, quello a cui volevo arrivare, è che il confronto politico tra Usa e Urss, pur viziato da nette distorsioni ideologiche, condusse ad un reale antagonismo tra i due campi, che prese il posto della – ma venne ampiamente confuso e identificato con la – altrettanto ideologica credenza nella lotta “a morte” tra borghesia e proletariato, tra classe capitalistica e classe operaia. Si fu anche convinti che l’azione dell’Urss corrispondesse al concetto di “internazionalismo proletario”; quell’internazionalismo molto carente, ad es., nell’azione del partito comunista francese in merito al colonialismo del proprio paese (ad es. in Algeria, in Indocina, ecc.), del tutto assente negli operai americani nei confronti del Vietnam, e si potrebbe continuare. Una lunga serie di distorsioni ideologiche, che coprivano comunque conflitti reali e risultati concreti, certo svisati nel loro effettivo significato.

Ci fu un’apparentemente insuperabile guerra di posizione, durante la quale i partiti comunisti dei paesi capitalistici occidentali (quelli di Italia e Francia in definitiva, in cui essi avevano ancora seguito e forza) si trasformarono progressivamente in sinistra integrata e riformista (salvo frange sempre meno consistenti e più agitatorie che fattive); mentre nella parte orientale si veniva preparando il crollo della “facciata socialista”, da cui sarebbero nate, dopo un tumultuoso ma breve periodo di solo apparente totale sconfitta, nuove formazioni sociali (di ancora impossibile definizione a meno di non erigersi a profeti) che sembra proprio si assestino e crescano come alternativa al capitalismo di tipologia “occidentale”. In definitiva, tuttavia, si tratta solo di Russia e di Cina, non certo di Cuba o del Vietnam, ecc.

3. Oggi la situazione, nel giro di un quarto di secolo (periodo storico breve) dal crollo del campo “socialista” e dell’Urss, è completamente mutata, tanto da essere irriconoscibile; solo dei “cervelli cristallizzati” possono continuare a rimuginare il passato come se tutto fosse rimasto eguale o con modesti ritocchi. Non esiste più una guerra di posizione ma di pieno movimento. C’è stata all’inizio di detto periodo l’illusione ottica dell’ormai realizzato monocentrismo (“imperiale”) statunitense, con questo paese in piena “arroganza di (pre)potere” e quindi direttamente (militarmente) aggressivo. Gli Usa hanno cominciato ad accettare (e forse non ancora del tutto) la nuova realtà; Obama è stato solo un po’ meno “diretto”, un po’ più viscido e avvolgente dei Bush e di Clinton, ma non aveva proprio per nulla tratto le debite conclusioni del multipolarismo ormai in accentuazione.L’establishment che si rappresenta in Trump sta cercando nuove vie, ma è fortemente contrastato e quindi costretto ad un continuo zigzagare. Resta in me il sospetto che forse non era ancora del tutto pronto alla virata necessaria e non si aspettava (forse nemmeno agognava) la vittoria di un suo “candidato” alla presidenza; per cui potrebbe non averlo scelto adeguatamente, ma solo provvisoriamente, pensando poi di cambiarlo arrivato il momento della possibile vittoria, che invece è arrivata di sorpresa.

Ricordo che ormai un bel po’ di tempo fa vi era stata quella avveniristica (e del tutto illusoria) visione del gen. Wesley Clark (comandante dell’aggressione alla Serbia nel 1999), secondo cui ormai la guerra si vinceva con l’aviazione, senza bisogno di truppe di terra. Oggi, simile convinzione appare perfino sciocca; comunque, gli Usa hanno soprattutto usato una sorta di sicari; sia che si trattasse di alcuni paesi europei (Francia e Inghilterra in Libia contro Gheddafi) sia utilizzando il cosiddetto estremismo (e terrorismo) islamico del tipo dell’Isis in Siria contro Assad (operazione non riuscita, anche se ancora resta qualche incertezza circa il risultato finale). Si continuano pure le operazioni ai confini della Russia (tipo Ucraina o alcuni paesi centro-asiatici), che non sembrano costituire un vero ostacolo al rafforzamento del paese in via di diventare il contraltare dell’influenza statunitense in Europa, nel Medioriente e probabilmente nello stesso nord Africa (in Libia ci sono già i precisi sintomi di tale processo in svolgimento). E’ comunque in corso un assai complesso gioco dialleanze in buona parte temporanee e “area per area”, destinate a continui disfacimenti e rifacimenti. E’ messo in forte difficoltà anche il principale alleato degli Usa (in particolare di quelli dell’attuale presidente) nell’area mediorientale, cioè Israele, con cui la Russia cerca, almeno al momento, di non entrare in netto contrasto.

Quanto appena esposto, pur per semplici cenni, è appunto effetto della fine della guerra di posizione, in cui uno dei due campi non era però in grado di tenere la posizione; mentre nell’odierna guerra di movimento, con più attori in gioco, e in rafforzamento, tutto è diverso, tutto muta con rapidità (certo sempre tenendo conto che stiamo parlando di processi storici). E’nel contempo un vero ricordo del passato la credenza nella “lotta di classe”, nell’antagonismo dei lavoratori contro il capitale edelle masse popolari del “fu” terzo mondo contro l’imperialismo dei paesi capitalistici avanzati. Tale credenza è sopravvissuta nel mezzo secolo di “sistema bipolare (e a malapena in ogni caso) per la confusione, fatta da ritardati (che si credevano marxisti quando erano invece scolastici e quasi religiosi), tra questa lotta e lo scontro tra i due campi in quella guerra di posizione, in cui uno dei due era ormai in surplace e incapace di uscire dal giogo dell’ideologia della lotta tra socialismo (inesistente) e capitalismo.

Nell’attuale fase storica – non perché si sia in presenza di una rinnovata e stabile nuova teoria dello sviluppo sociale, ma solo perché siamo in un processo di “transizione” ancora tutt’altro che stabilizzatosi – si deve pensare alla decisa preminenza dello scontro di tipo internazionale (tra quegli Stati nazionali che per i fumosi chiacchieroni altermondialisti e moltitudinari non sarebbero più esistenti); e del conflitto interno in pieno svolgimento tra i gruppi dominanti, legati alle vecchie strutture economiche e sociali “preinnovative”, e quelli tutto sommato “innovativi” (della distruzione creatrice, intesa in senso ampio e non solo relativa alla sfera economica), dove i primi sono i piùservilmente subordinati agli Usa, mentre i secondi (non tutti però e non ancora con vera decisione e chiarezza di idee) allargano i loro orizzonti ai nuovi poli e dunque alla guerra di movimento.

Non abbiamo alcuna simpatia per i dominanti, siamo in fondoancora attratti dall’idea che si riaffermeranno nuovi scontri in verticale (tra strati sociali in antagonismo). Non siamo per nulla convinti che ormai il conflitto si giocherà per sempre soltantonegli spazi (orizzontali) della “geopolitica”. Siamo però consci che la fase attuale è questa, non quella ancora pensata con schemi obsoleti da “vecchi ossi” (ormai rosi dal tempo) che si definiscono, per di più, di sinistra (magari “estrema”; estrema solo nella sua idiozia). Bisogna passare per una fase di guerra di movimento tra poli, che definiamo momentaneamente (e senza alcuna intenzione di cristallizzare il pensiero in tale schema) capitalistici; ma non caratterizzati da un capitalismo, bensì da alcune differenziate (e ancora non studiate né comprese adeguatamente) formazioni sociali di tipologia capitalistica, soprattutto nella loro sfera economica, caratterizzata assai genericamente da impresa e mercato.

Attraverso tale tipo di guerra si riconfigureranno anche le “strutture” sociali nei vari capitalismi, e sarà allora possibile avvicinarsi, con nuovi orientamenti di pensiero, alla teoria e prassi di altre lotte combattute in verticale, tra strati sociali. Oggi, è proprio per colpa dei “vecchi ossi” sopra citati che è impossibile prevedere adeguatamente tali nuove lotte, non meramente interne alla riproduzione capitalistica, come sono tutte quelle odierne. Il primo compito è il superamento di certe concezioni ormai “da dinosauri”, la loro sparizione perfino nel retropensiero dei più giovani. Per il momento, è più utile la discussione con i geopolitici; non perché siamo convinti in assoluto che abbianoragione ma perché, per un’intera fase storica (non per pochi anni), sarà più energica e produttiva di effetti eclatanti la guerra di movimento tra policon i suoi specifici effetti su quella interna(ma tra dominanti e per un periodo storico non breve) nei diversi paesi facenti parte dell’area di influenza di ognuno dei poli in questione.

A questo orientamento di massima bisogna ormai indirizzarsi,acutizzando gli scontri laddove ciò si renderà più facile e foriero di risultati positivi al fine di uscire dalle forme di lotta che ancora oggi fanno marcire una situazione ben poco compresa da chi le conduce con occhi rivolti al passato o con un atteggiamento empirico da semplici praticoni e maneggioni. E diamo addosso con tutte le forze a questa falsa e degenerativa “democrazia elettorale”, ormai la vera infezione del nostro mondo in progressivo avanzamento verso un’epoca di profonda trasmutazione sociale. Se vogliamo, non dico evitare (utopia), ma almeno moderare gli orrori, è indispensabile non commettere più i gravi errori cui ci costringono vecchie ideologie, fra l’altro nemmeno più conosciute e tanto meno capite da (pseudo)pensatori in fase fortemente degenerativa.